Marcello Sorgi, La Stampa 17/6/2014, 17 giugno 2014
IL GALATEO DEL 40 PER CENTO
Più di qualsiasi discorso, slogan o esercizio di comunicazione, vale quel 40,8% issato a cifre cubitali alle spalle di Renzi all’assemblea del Pd.
Quel numero stava a sottolineare il messaggio principale che il leader vuol mandare a un partito rimasto rissoso, come s’è visto la scorsa settimana alla Camera e al Senato, e per nulla pago dello storico risultato del 25 maggio. Renzi ha poi spiegato anche a parole, in termini piuttosto perentori, che il Pd deve abituarsi alla grande responsabilità che viene dal rappresentare una parte così ampia dell’elettorato. Come questo compito vada svolto, nell’Italia del 2014 e rispetto a una società civile spezzettata e divisa come l’attuale, però, non lo ha detto. Né è affatto facile immaginarlo.
Esempi recenti non ce ne sono. Com’è stato già osservato all’indomani delle elezioni europee, per trovare un precedente occorre risalire, nientemeno, alla Dc di Fanfani del 1958 o addirittura a quella di De Gasperi del ’48. Altri tempi, altro mondo, altra Italia, quella in cui trovarsi al 40 per cento, o anche più, voleva dire aver tutto, il presidente del consiglio ma anche quello della Repubblica e quelli delle Camere; il governo e buona parte dell’opposizione (attraversata, non a caso, da forti correnti filo-Dc); la Confindustria, i sindacati (non tutti), i datori di lavoro e i dipendenti, pubblici e privati, le banche e i banchieri, i sindaci, le città, i comuni (le regioni non c’erano ancora).
Un potere pervasivo, totalitario, un’altra forma di regime che, forse proprio perché lo avevano ereditato dal fascismo, i democristiani facevano grande attenzione ad usare in modo morbido, flessibile, aderente alle mutevoli esigenze del Paese, per segnare la differenza tra dittatura e democrazia. Erano loro i primi ad aver capito che arrivare al 40 per cento significa esser stati votati per convinzione, sì, ma anche per disperazione, nel senso della mancanza di alternative. Quando Indro Montanelli, nel ’76, consigliò ai suoi lettori di votare Dc, ma «turandosi il naso», i Dc, invece di offendersi (non era proprio un complimento), furono contenti. E si dispiacquero, al contrario, quando Gianni Agnelli - che pure si erano ritrovato vicino in tante occasioni, e al fratello del quale, Umberto, avevano offerto un seggio in Senato -, si schierò con i repubblicani.
Un potere assolutamente inclusivo, nel senso della capacità di sopportare qualsiasi genere di dissenso, interno o esterno, e ascoltarlo, misurarlo, blandirlo, corrompendolo con altre quote di potere date o promesse, con rinvii (il decisionismo non era affatto di moda), capovolgimenti di scenario in cui i punti cardinali di ogni trattativa venivano ripensati, riscritti, capovolti e cancellati attraverso le liturgie dei congressi e delle crisi di governo, che ad anni alterni, ma praticamente tutti gli anni, riassestavano i valori percentuali delle correnti e quelli personali dei diversi leader.
Un potere fortissimo eppure discreto, rigorosamente mai messo in mostra e sempre condiviso con altri. Da De Gasperi - che pure, nel ’48, avendo avuto la maggioranza assoluta il governo avrebbe potuto farselo da solo -, con repubblicani e liberali, che la Chiesa considerava pericolosi mangiapreti, e con i socialdemocratici, che i comitati civici e i clericali che tanto avevano contribuito alla vittoria assimilavano ai cosacchi. Da Fanfani con i socialisti. Da Moro anche con i comunisti, e da Andreotti con tutti. Mai e poi mai la Dc di quei tempi avrebbe esibito le sue percentuali, come ha fatto qualche giorno fa Pina Picierno, laureatasi tra l’altro con una tesi su De Mita, vantandosi di aver preso oltre duecentomila preferenze. La sensazione che i capi democristiani volevano dare all’esterno era sempre di sofferenza e precarietà nell’esercizio del potere. Non a caso apparivano pallidi, curvi, cagionevoli (anche se avevano una salute di ferro), sempre fasciati in abiti scuri e lisi. Di Moro, Fanfani o Andreotti non si troverà mai una foto in maniche di camicia, o in jeans, o con il colletto sbottonato.
Un potere che non gli apparteneva e che si dicevano consapevoli di poter perdere da un giorno all’altro. Infatti, benché laici, i democristiani ritenevano che il vero potere fosse quello divino e non avevano alcuna intenzione di far concorrenza al Papa e ai vescovi, che lo rappresentano in terra (a condizione, beninteso, che anche il Vaticano li lasciasse in pace). Pur facendone di tutti i colori, temevano l’inferno. Non a caso quando a Martinazzoli, ultimo leader della Dc, toccò assumersi la guida di un partito malconcio e ormai destinato allo scioglimento, in un discorso rimasto famoso, sospirò: “Dio si è girato da un’altra parte”.
Un potere da non contrapporre, senza avversari, tranne in campagna elettorale quando c’era da suonarle ai comunisti. La Dc non “scendeva in campo”, non lanciava sfide né ultimatum, evitava fino all’impossibile il muro contro muro. E infatti, la prima volta che ci si trovò, con il referendum radicale sul divorzio del 1974, cercò fino all’ultimo, con l’aiuto dei comunisti, di aggirare il voto; e quando alla fine dovette andarci, fu sconfitta. A nulla valse lo storico comizio in cui Fanfani si rivolse ai mariti siciliani, considerati più sensibili sull’argomento, ammonendoli dal rischio di ritrovarsi cornuti il giorno dopo l’apertura delle urne. E tuttavia, con un decalogo di regole del potere come quello illustrato fin qui, la Dc riuscì a restare al governo in posizione preminente per altri vent’anni, pur avendo perduto per sempre il 40 per cento, ed essendosi, negli ultimi tempi, pericolosamente avvicinata al 30.
Tutto ciò fa capire come il 40 per cento democristiano di oltre mezzo secolo fa e quello contemporaneo di Renzi e del Pd siano in realtà molto diversi. Non foss’altro perché allora a votare ci andavano quasi tutti gli italiani e oggi appena la metà. Tra l’arcifamosa «Italia del boom», oggetto di studio e di rivalutazione storica, e quella eternamente in crisi di oggi, non c’è quasi più rapporto: si fatica davvero a trovare un filo di collegamento.
Questa è anche la ragione per cui Renzi, che in quell’epoca non era manco nato, delle regole di potere, di sapienza, di discrezione, dei suoi furbissimi avi democristiani, può decidere di farne a meno. Di contraddirle, se gli va; oppure, a sorpresa, di restaurarle: chi lo sa. Il potere nel 2014 è diventato volatile. E il 40 per cento del 25 maggio non è detto che si ripeta, la prossima volta.
Marcello Sorgi, La Stampa 17/6/2014