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 2014  giugno 17 Martedì calendario

CERCARE DIO NEL DESERTO DI NEW YORK

[Intervista a Michael Cunningham] –

Nei romanzi di Michael Cunningham la dimensione spirituale è spesso nascosta nelle pieghe di storie segnate dal dolore, ma in La regina delle nevi, titolo preso dalla favola di Hans Christian Andersen, diviene un elemento esplicito ed imprescindibile. Ambientato nel 2004 in sobborghi di Brooklyn non ancora alla moda, il romanzo segue le vicende di Barrett Meeks, omosessuale di 38 anni, che vive l’esperienza di una visione mistica a Central Park dopo essere stato abbandonato dal compagno. Barrett divide l’appartamento con il fratello Tyler.
Un musicista velleitario e tossicodipendente, il quale dedica tutta la propria energia a comporre una canzone per la moglie Beth, malata di cancro.
I tre protagonisti cercano in modo differente la redenzione, e lungo questo itinerario Cunningham racconta il rapporto tra le relazioni personali, il dolore a cui siamo condannati tutti e il modo in cui il luogo in cui viviamo forgia i nostri sogni.
«È una storia di redenzione», mi racconta nel suo appartamento newyorkese, poco distante da Washington Square, «ma anche un modo di raccontare una ricerca personale attraverso i miei protagonisti. Si tratta di una ricerca che continuerà fin quando vivrò». Ritiene che la dimensione spirituale sia una costante dell’umanità, o una debolezza dalla quale un uomo maturo deve liberarsi?
«Certo che si tratta di una costante, ed è illusorio cercare di prescinderne. Non credo si tratti di una forma di superstizione o di un limite: la storia ci ha insegnato che si può essere grandi artisti e sinceri credenti. Tra i tanti mi viene in mente, per rimanere nell’ambito del cristianesimo, Flannery O’Connor. In questo periodo storico è evidente anche una grande vitalità della dimensione spirituale e religiosa, che a volte assume gli aspetti degenerati del fondamentalismo».
Ma secondo lei la religione è ancora «oppio dei popoli», come sosteneva Marx?
«È una battuta che può essere applicata a quelle forme estreme, ma sul resto mi sembra una visione limitata e limitante».
Lei è credente?
«Ritengo che esista qualcosa di molto più importante di quello che consumiamo ogni giorno, e che il mondo sia meraviglioso e inspiegabile. Credo nell’esistenza di un’entità che ha reso possibile la vita, e mi piace l’idea che possa averlo fatto per amore. Ma non credo nella religione istituzionalizzata».
Lei prega?
«Se si riferisce alle orazioni classiche, no. Ma credo che la mia preghiera sia il modo con cui tento di vivere con moralità e decenza, cercando di amare il prossimo, e di essere gentile, comprensivo e tollerante».
Tuttavia la scelta spirituale del suo protagonista è istituzionale: Barrett comincia ad andare in chiesa.
«Mi interessava raccontare un personaggio estremamente laico, che vive con sincerità un’esperienza di quel tipo. Per quanto riguarda la visione che è al centro del romanzo ho pensato a qualcosa di diverso dalle apparizioni classiche, che prevedono normalmente indicazioni morali. Barrett è una persona che forse non trova, ma cerca, ed è questa la sua fede».
Anche lei si è definito una persona in continua ricerca.
«Credo infatti che la risposta sia nel libro, e immagino di non rivelare nulla di rivoluzionario dicendo che ogni personaggio riflette l’anima del suo autore».
Crede nell’anima?
«Dipende dalla definizione che diamo a questo termine, ma sono consapevole di aver usato proprio questo termine, e forse anche questa è una risposta».
Ritiene che la religione debba seguire il mondo o viceversa?
«Credo che le due realtà siano inseparabili, e l’una risponde all’altra».
Il romanzo è ambientato in una città cambiata enormemente in dieci anni.
«I cambiamenti principali sono economici: gran parte della vicenda è ambientata a Bushwick, una zona che allora era selvaggia e pericolosa. Oggi in quelle stesse strade si vedono ristoranti e locali alla moda, nati intorno agli studi degli artisti che non possono più permettersi di vivere a Manhattan o anche a Williamsburg. Ma questo è un dato puramente antropologico, a me interessava raccontare qualcosa di più intimo e rivelatore: una città nella quale la redenzione è alla portata di tutti, ma sembra più nascosta».
Germaine Greer parlava del «deserto di New York».
«È una grande intuizione, ma vale anche il contrario: è la metropoli più entusiasmante e vitale del pianeta».
New York è la città del melting pot: questo ne accentua la dimensione spirituale o crea invece una mescolanza che stempera la realtà di ogni culto?
«L’incredibile varietà di New York può generare smarrimento, ma se la fede è autentica rappresenta una prova da cui si esce rafforzati e arricchiti».
Il titolo del libro cita la favola di Hans Christian Andersen.
«Nelle fiabe si trovano molte verità, e Andersen è un narratore di grande maestria. Quando sono andato a leggere il suo racconto sono rimasto colpito dal clima cupo e angosciante: si tratta solo di un’ispirazione, ma credo di essermi distaccato da quell’atmosfera, proprio per il percorso di redenzione dei miei protagonisti. Per quanto possa sembrare paradossale, è molto più simile alla matrice originale Frozen, il film d’animazione della Disney».
Il romanzo è ambientato nel 2004, anno che segna l’inizio del secondo mandato di Bush.
«Ho voluto raccontare i personaggi di fronte a un cambiamento epocale: dapprima la conferma di Bush, nonostante la guerra e l’inizio del disastro economico, poi l’ascesa di Obama. Un evento rivoluzionario, anche se la sua presidenza si è rivelata molto più controversa e complicata di quanto sperassimo».
Appartiene anche lei alla numerosa schiera di liberal delusi da Obama?
«La delusione può nascere solo dopo una illusione: io ero consapevole che la politica, e la grave crisi internazionale, lo avrebbero costretto a grandi compromessi. Tuttavia non mi aspettavo che fossero così tanti: siamo stati costretti ad affrontare la realtà, e vedere con i nostri occhi il salto che c’è tra l’audacia della speranza, per usare un termine caro al presidente, e l’asprezza della concretezza. Il fatto che questa promessa fosse ed è tuttora supportata da una magnifica retorica rende tutto più doloroso».
Qual è la sua opinione su Papa Francesco?
«Non mi sarei mai aspettato che potesse piacermi così tanto. La realtà è che continua a sorprendermi».

Antonio Monda, la Repubblica 17/6/2014