m. pi., la Repubblica 17/6/2014, 17 giugno 2014
“ABBIAMO FATTO L’AMORE, POI LI HO UCCISI TUTTI. VOLEVO LIBERARMI DELLA FAMIGLIA PER UN’ALTRA”
MOTTA VISCONTI.
L’amore, la strage e la messinscena. Gli indizi fasulli sparsi per casa e Italia-Inghilterra da guardare a casa di amici per costruirsi un alibi esultando al destro di Marchisio e alla capocciata di Balotelli. È Carlo Lissi il macellaio di Motta Visconti. È il marito di Maria Cristina Omes ad averla aggredita alle spalle col coltellaccio preso giù in taverna, sullo stesso divano dove un quarto d’ora prima avevano fatto l’amore per l’ultima volta, dopo aver messo a letto i bimbi: un fendente al collo, lei che si alza di scatto e urla «No!», e poi supplica «perché? perché?» mentre lui infierisce e la finisce, ancora in mutande.
È il padre di Giulia, dopo essersi fatto la doccia ancora nella taverna, a tornare su con lo stesso coltello e a entrare nella stanza della piccola, tra due mesi avrebbe compiuto 5 anni, e a spegnerla nel sonno sgozzandola con un colpo secco, da chirurgo. E lo stesso destino, per ultimo, tocca a Gabriele, 21 mesi di bimbo adagiato come ogni sera sul letto matrimoniale. Ed è sempre quel ragazzo non ancora 32enne, fedina penale immacolata, ad aprire la cassaforte con la combinazione e svuotare i portagioie, a rivestirsi con maglietta e jeans puliti e a uscire dalla taverna. A buttare via lama e gioielli nel chilometro che separa la sua villetta da quella dell’amico Carlo, dove raggiunge gli amici per tifare azzurri. A tornare e chiamare i soccorsi con finta angoscia, a negare per le 16 ore che trascorre nella caserma di Motta Visconti. Infine a confessare, sono le 2 di domenica notte, quando legge il verbale della sua collega di lavoro, che conferma le sue avances e nega ogni legame. Si mette le mani tra i capelli, mentre i carabinieri del Nucleo investigativo di Milano chiamano il procuratore di Pavia Gustavo Cioppa, il pm Giovanni Benelli, l’avvocato d’ufficio Maria Cristina Carisano. «Premetto che voglio che mi sia dato il massimo della pena — è il suo esordio a verbale — sono stato io ad uccidere mia moglie e i miei due figli».
Vuota il sacco, porta i carabinieri a riprendere dal tombino l’arma dei delitti prima di finire in carcere a Pavia, ma il castello di Lissi era già crollato: troppe contraddizioni nel suo racconto, troppo inverosimile l’ipotesi di una rapina degenerata — nonostante le incaute parole a caldo del sindaco Primo De Giuli — e inesistenti i moventi esterni a una famiglia con due redditi fissi e nessun nemico. Il fermo, gli investigatori guidati dal tenente colonnello Alessio Carparelli lo avevano firmato quattro ore prima. «È stato incastrato», sintetizzerà il procuratore Cioppa. Nessun segno di scasso su porte, finestre e cassaforte, l’assassino che butta giù il mobiletto dei giocattoli e la biancheria dagli armadi ma lascia i soldi sul tavolo della sala, i bimbi addormentati e ammazzati senza movente. E poi quei tre graffi sulla mano destra che Carlo Lissi non aveva saputo spiegare, così come quelle macchioline di sangue sulla parte posteriore delle mutande. E invece non una traccia su interruttori, porte, maniglie, vestiti: impossibile per un uomo che aveva raccontato di essere tornato alle due, di essersi spogliato al buio nel box e di essere inciampato nel corpo della moglie in salotto, illuminato col telefonino. «Ho appoggiato il cellulare — aveva provato a spiegare ai carabinieri nel pomeriggio — e mi sono avvicinato a lei e ho provato a sollevarla, ma mi ricordo che era pesantissima. Devo essermi toccato le mutande nel tentativo di asciugarmi le dita». Non reggeva.
E non ha retto l’informatico quando gli hanno mostrato il verbale col movente, il racconto della «collega di lavoro per cui nutriva una particolare passione» non corrisposta, come spiega il generale Maurizio Stefanizzi, comandante provinciale dell’Arma. Confessa lucido, non versa lacrime, chiosa con pudore per le sue fantasie e un movente — questo sì — inconfessabile: «Questo gesto l’ho fatto poiché non avevo il coraggio di chiedere a mia moglie di separarci, cosa che io invece volevo fare». Ha aspettato la sera della partita per lo sterminio, occasione troppo propizia per costruirsi un alibi, cambiando pure ventennali abitudini. Tanto che, quando l’amico con cui doveva andare allo Zyme Pub di Besate gli dà buca, alle 21.30 di sabato, manda un messaggio a «killed», il nomignolo del suo amico Carlo: «Posso fare lo sfacciato e aggregarmi a voi?».
m. pi., la Repubblica 17/6/2014