Paolo Berizzi, la Repubblica 17/6/2014, 17 giugno 2014
“DICIOTTOMILA PROVETTE PER CERCARE LA VERITÀ ALLA FINE SIAMO ARRIVATI ALLA MADRE DEL KILLER”
Costellato per lunghi tratti da un’alta densità di frustrazioni. «O fai o parli, e se fai non puoi parlare: non ha nessun senso, avresti solo dato una mano a lui. Al narcisismo che il killer improvvisato — e questo qui, almeno all’inizio, lo è stato — sviluppa nel tempo. Prima di essere fermato. È passato un tempo lungo e bisogna ammettere che per essere uno alle prime armi ha resistito anche troppo. Ma non è stato merito suo. La sua fortuna, che è stata anche la sua sfortuna, si chiama genetica. Senza quell’ombra di Dna forse non l’avremmo mai beccato».
Il “cacciatore” è un uomo del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. Fa parte di una squadra che solo casualmente, fuori dall’ufficialità dei rapporti investigativi, si è chiamata “Squadra Yara”. L’etichetta non è immune da una quota-affetto. Ha bucato anche la pellaccia dura degli 007 la storia di Yara Gambirasio. La cosa che si può dire è che sono un manipolo di detective di lungo corso, cinque o sei più un paio di aggiunti “col fiuto”. Fiuto e pazienza. Lombrosianesimo nei limiti del mestiere. «Ma è inutile, adesso, fare considerazioni stupide su foto e messaggini Fb. Nel guardaroba di un assassino trovi tutti gli abiti che vuoi. Soprattutto se li cerchi dopo». Per di più se l’assassino è uno che, incastrato dal codice genetico, a sera dice al pm «sono sereno».
Come sono arrivati a stringere il cerchio intorno a Massimo Giuseppe Bossetti? Quanto è stato faticoso e quanto raffinato, soprattutto dal 18 settembre 2012 — la data «snodo» — il lavoro che ha permesso alle forze dell’ordine di scavare la pozza nella quale è rimasto impantanato il muratore tranquillo diventato un fantasma che ha seguito da vicino, vicinissimo, la caccia che gli dava la scienza? Quanto? È pomeriggio e il “cacciatore” ha appena letto le agenzie con le dichiarazioni del ministro Alfano sul fermo di Bossetti. Le commenta ad alta voce ma chiede di considerare privato il suo pensiero di «uomo di strada». «Lo era anche il killer, uno di strada. Regolare, normale, tranquillo, affettuoso coi tre figli, giusto?». Giusto. Come fai a beccare uno così dopo tre anni e otto mesi di indagini? «Possiamo partire da un passo prima? L’incastro è arrivato pochi giorni fa, ok. Trovata la madre, trovato il figlio. Ma tutto il lavoro fatto prima, anche quando qualcuno diceva che su Yara non si lavorava come richiedeva il caso, quello dove lo mettiamo?».
Parla a caldo il carabiniere, non dissimula l’emozione e la voce tradisce, oltre alla soddisfazione, anche la fatica snervante. Questa iniziata da Brembate Sopra il 26 novembre 2010 è la storia di una caccia al buio. Poi il buio diventa un’ombra. Prende forma con una micro traccia di sangue. Spunta dagli slip di Yara, in mezzo a tracce di calce edile, un particolare che si rivelerà decisivo, quando la trovano cadavere, casualmente, tre mesi dopo: è il 26 febbraio 2011, nel campo di Chignolo d’Isola. Il Dna. L’assassino. Ma chi è l’assassino? Dice il cacciatore: «Quando abbiamo finito di setacciare i cerchi stretti e anche quelli larghi — parlo di centinaia di persone — e nulla di interessante era venuto fuori, a quel punto davvero iniziavano a esserci motivi per non riuscire a essere fiduciosi. Ma Bossetti era uno di quelli che restavano, assieme ad altri, nel nostro occhio».
Fa il muratore, si sporca di calce. Ma soprattutto il suo telefonino aggancia la cella della zona dove Yara viene trovata cadavere nell’ora della scomparsa. Tracce. Da una parte l’indagine tradizionale, dall’altra il responso della scienza. L’anticamera della prima curva che porta alla svolta si chiama «Sabbie Mobili” ed è una discoteca. Si balla a 100 metri dal cadavere di Yara, lì a Chignolo. Polizia e carabinieri sparano una raffica di tamponi alle centinaia di frequentatori del locale, giovani e giovanissimi. Fuochino. Un Dna s’avvicina vagamente a quello rinvenuto sugli slip della ragazzina e cristallizzato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo. È un ragazzo, un lontano patente della famiglia Gambirasio di Gorno, in Val Seriana. I detective in camice bianco partono da un residuo di saliva dietro una marca da bollo e fanno cinquina. La saliva è del padre del killer. Il codice si incastra al 99% con quello del sangue dell’omicida. Eccolo il padre: Giuseppe Guerinoni, autista, morto nel ‘99 a sessantuno anni dopo avere messo al mondo — forse a sua insaputa — il futuro assassino di Yara Gambirasio. Che si chiama Giuseppe come lui.
Ma resta un’idea. «Ignoto 1» lo chiamano.
Dov’è? Chi è sua madre? Quanti anni ha e, soprattutto, è ancora al mondo? «Prelevare 18mila Dna non è come dirlo — spiega l’investigatore — Per ognuno prima devi farci sopra uno studio. E dopo l’esito anche, per capire se e da dove è meglio proseguire le ricerche». Padre certo, madre incerta. Fino alla fine. Quarantaquattro mesi al buio sulle autostrade A4 e A1; un van con le cellette frigorifere che trasporta i campioni prelevati nei paesi del mistero fino ai laboratori di medicina legale di Milano e poi nel cervellone molecolare del Ris di Parma. Tre di 18mila erano quelli «giusti». Uno è lui, il killer in provetta. L’altro è il padre che oltre alla vita gli ha dato anche il nome (Giuseppe). L’altra è la madre che ha 80 anni.
Si rivela utile la testimonianza di Vincenzo Bigoni, vigile volontario a San Lorenzo di Rovetta ed ex collega di Guerinoni. «Mi disse che aveva messo nei guai una ragazza delle nostre parti con cui aveva una relazione», racconta il supertestimone, in scia con le «dritte» scientifiche. Ne cercano migliaia di donne oggi 70-80enni della “zona”. Le cercano ovunque. Mentre il povero piastrellista marocchino Mohamed Fikri esce dall’indagine, c’è un’anziana madre che non salta fuori e un figlio assassino che si nasconde nella polvere depositata da mezzo secolo. Anche in quella di cantiere che lascia sul cadavere di Yara. «Ci voleva un colpo di fortuna», chiosa il “cacciatore”. Arriva il 26 aprile scorso. I carabinieri prelevano il campione decisivo. Donna. Quasi ottantenne. Di Clusone. È la madre di Ignoto 1. Il killer in provetta è incastrato.
Paolo Berizzi, la Repubblica 17/6/2014