Renzo Mazzaro, Il Fatto Quotidiano 16/6/2014, 16 giugno 2014
QUELLI CHE DICEVANO LADRONI AGLI ALTRI
Venezia
Signor giudice, lei venga quando vuole, più ci farà aspettare più sarà bello uscire». Questa frase, presa da una canzone di Roberto Vecchioni, è il titolo di un paragrafo del libro “I padroni del Veneto”, autocitazione che ci permettiamo perché fa specie leggere oggi il testo che seguiva: «Cambiamo noi questa classe dirigente prima che la cambi la magistratura – andava dicendo nel 2006 Giorgio Ca-rollo, coordinatore regionale di Forza Italia nel Veneto, silurato dalla coppia Galan-Sartori – . Non ne posso più degli imprenditori che vengono a lamentarsi, che vadano dai giudici se hanno qualcosa da denunciare».
Otto anni dopo i giudici sono arrivati: l’ex presidente del Veneto Giancarlo Galan ha una richiesta d’arresto depositata in Parlamento, la deputata europea Lia Sartori è coperta da immunità solo fino al 1° luglio perché non è stata rieletta, sono in carcere magistrati, finanzieri, imprenditori, politici, amministratori pubblici.
Il fragore dell’inchiesta Mose che sta terremotando il Veneto si deve a tre giovani magistrati e a un gruppo di finanzieri che hanno lavorato con una professionalità sconosciuta. Ci volevano determinazione e coraggio per puntare in alto, ma anche strategia per arrivare in fondo, viste le incursioni interne cui erano sottoposti.
Ma tutto questo copre una domanda ancora inevasa: perché la magistratura non è intervenuta prima, se molti, per non dire tutti, sapevano? Il tempo ha fatto crescere il senso di impunità in chi orchestrava il sistema. Ha consentito all’illegalità di penetrare in tutti i settori della spesa pubblica, trainata da un ristretto gruppo politico che pensava di potersi consentire tutto e da un gruppo imprenditoriale chiuso nel fortino del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico.
La procura stima che sia stato drenato un miliardo di euro per il «fabbisogno sistemico», come lo chiama l’ingegner Piergiorgio Baita. I pm veneziani hanno escluso deliberatamente l’intero settore della sanità, con i project financing dei nuovi ospedali, per concentrare lo sforzo. Il nuovo ospedale di Padova, per esempio, che secondo Giancarlo Galan doveva costare 1700 milioni di euro e che Luca Zaia ha riportato a 700 – salvo dire adesso che non verrà più realizzato – doveva essere la prosecuzione del meccanismo di approvvigionamento , una volta terminato il Mose. A realizzarlo in project financing c’era già il proponente: un’Ati rappresentata da Roberto Meneguzzo, uno degli arrestati del 4 giugno, titolare di una finanziaria vicentina, la Palladio.
Vale lo stesso per le grandi infrastrutture stradali, realizzate o da realizzare anche queste in project. Per la copertura assicurativa degli ospedali, affidata a compagnie scelte da un broker nominato senza gara. Possono diventare altrettanti titoli di nuove inchieste giudiziarie. Otto anni fa forse bastava il bisturi. Oggi serve il lanciafiamme, ha detto in aula il presidente della Regione Luca Zaia.
Il Veneto è sotto le macerie e il Consiglio regionale, che dovrebbe organizzare i soccorsi, dopo una seduta di tre giorni ha approvato una legge per indire il referendum per l’indipendenza. Indipendenza, non autonomia: il Veneto deciderà, non si sa quando (si sa a quanto: 14 milioni costerà la consultazione) se diventare uno stato sovrano. Magari con il nome Serenissima 2.0 e nuova moneta il ducato. Sempre se non verrà sciolto prima perché va contro la costituzione. È successo giovedì scorso: 30 sì, 12 no, 3 astenuti, su 60 aventi diritto al voto. Ha trainato la Lega, che ha sempre urlato Roma ladrona e adesso con i ladri in casa ha abbassato la voce. Ma hanno votato a favore anche Forza Italia e Ncd, pur con qualche diserzione. Contrari solo Pd e Idv.
«La repubblica indipendente del Veneto è già costituita», ironizza Settimo Gottardo, già sindaco di Padova, deputato ai tempi della Dc, inquisito e processato nella Tangentopoli del ’92 e risorto a nuova vita come commentatore politico. «È un club privé fatto da un gruppo di aziende e di politici che della sovranità popolare hanno totale disprezzo. Davano un obolo all’imperatore e il resto per loro. Lo Stato raccoglie in bianco e il Veneto spende in nero».
Il nuovo sindaco di Padova Massimo Bitonci, leghista bossiano che ha intercettato l’ondata del nuovo, teneva a ribadire prima del ballottaggio su Ivo Rossi che tra i 130 arrestati o inquisiti dell’inchiesta Mose non c’è nessun leghista. Ma Luca Zaia qualche problema se lo pone, dopo l’arresto dell’assessore Renato Chisso, Pdl, che in nome e per conto del governo da lui presieduto dal 2010 ha diretto le infrastrutture regionali.
Ivo Rossi era il successore designato da Flavio Zanonato, ma l’ondata dell’inchiesta Mose ha coinvolto direttamente i vertici del Pd veneziano, con Piero Marchese in carcere e Davide Zoggia e Michele Mognato costretti a difendersi. Rossi ha potuto opporre solo la sua personale fedina penale. Pulita, ma insufficente.
«Un sistema consociativo tra una certa destra e una certa sinistra» sostiene il padovano Domenico Menorello «ha tenuto bloccato il Veneto per anni e non solo economicamente. Questo sistema prevedeva che il comune di Padova dovesse essere lasciato sempre al centrosinistra. Sono testimone diretto di come andarono le cose nel 1999, nel 2004 e nel 2009». Menorello fa parte della generazione dei trentenni del centrodestra che si affacciavano alla politica sul finire degli anni Novanta. Tutti fatti fuori perché disturbavano il manovratore: ex amministratori e sindaci come Rocco Bordin, Luca Ruffin, Lino Ravazzolo, Riccardo Roman. Il trevigiano Antonio Guadagnini, un cervello passato con i venetisti. Il vicentino Marco Zocca, l’intero gruppo veronese di Stefano Casali, oggi assessore comunale nella giunta di Flavio Tosi. Spazzati via con la stessa brutalità dei dirigenti regionali e dei funzionari che non stavano agli ordini. Come Ugo Zurlo, direttore generale dell’Usl di Este-Monselice, silurato perché voleva realizzare il nuovo ospedale con un mutuo bancario e non con una forma di project financing, parola chiave della spesa pubblica veneta degli ultimi 15 anni. Al posto suo Galan insediò Giovanni Pavesi, già inquisito nella Tangentopoli veronese del ‘92, che sta ultimando la struttura in concessione a privati. Utile stimato dell’investimento 20% (conti fatti da Zurlo).
Renzo Mazzaro, Il Fatto Quotidiano 16/6/2014