Chiara Daina, Il Fatto Quotidiano 16/6/2014, 16 giugno 2014
FARE PROFITTI CON L’EPATITE C, IL TARIFFARIO DELLA VITA
L’industria farmaceutica dà un prezzo alla vita umana. Un malato di epatite C, per esempio, vale 60 mila euro per 12 settimane, il tempo di cura previsto con il Sovaldi (sofosbuvir è il principio attivo), il nuovo antivirale prodotto dalla Gilead Sciences, autorizzato al commercio lo scorso dicembre negli Stati Uniti e a gennaio nell’Unione europea. Il farmaco è in grado di eliminare il virus dal sangue, evitando il trapianto di fegato e, nel peggiore dei casi, la morte. In Italia si contano dai 300 ai 500 mila pazienti e circa novemila morti l’anno a causa della malattia. Per garantire il trattamento a tutti lo Stato dovrebbe sborsare 25 miliardi di euro più o meno, in pratica la somma che oggi serve per sostenere l’intera spesa farmaceutica.
Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin aveva promesso entro il 19 giugno la contrattazione del prezzo tramite l’Aifa, ma la ditta per ora ha deciso di sospendere le trattative e di fornire gratis la terapia ai pazienti più urgenti come “uso compassionevole”. Gli altri, se va bene, aspettano.
Una cosa è certa: la lista delle molecole proibitive lievita ogni volta che si scopre un antitumorale o un farmaco salvavita. L’Aifa ha stilato una classifica dei trenta principi attivi più costosi a carico dello Stato. In testa c’è il Dexrazoxano, un antitumorale, oltre 20 mila euro. Il Treprostinil, un antiipertensivo, quasi dieci mila euro. Come il Canakinumab, usato per la cura di una malattia rara (un trattamento annuale, sei somministrazioni da 150 mg, costa circa 58 mila euro). Il resto non scende sotto i tre mila euro.
Da 240 milioni di euro a 60 milioni il conto totale all’anno per i 30 cicli terapeutici più cari. Al primo posto c’è quello con il Trastuzumab per il carciroma al seno (mille euro solo un flaconcino). Seconda, la terapia contro l’artrite reumatoide con l’Etanercept (4 fiale 1600 euro), e terza, per lo stesso disturbo, quella a base di Adalimumab (dieci mila euro l’anno). A fine maggio 30 mila oncologi da tutto il mondo riuniti a Chicago in occasione del congresso della Società americana di oncologia hanno lanciato un grido d’allarme. “Non possiamo andare avanti così, con i prezzi che continuano a salire" ha detto Richard Pazdur, della Food and drug administration. Stefano Cascinu, presidente dell’associazione italiana di Oncologia medica, presente anche lui al meeting, avverte: “Il costo totale del cancro in Europa è ogni anno di 126 miliardi di euro, di cui 16 in Italia. Nel 2030 il 30 per cento degli italiani sarà over 65 e i pazienti con il cancro dai 2,8 milioni attuali passeranno a 4,5 milioni. È chiaro che le risorse a disposizione non basteranno”.
Il problema è alla radice: come si determina il prezzo di un farmaco? C’è un caso che fa scuola, quello del Glivec (imatinib), l’antitumorale della Novartis per la leucemia mieloide cronica, in commercio dal 2001. Costo: 30 mila dollari a paziente per un anno di terapia. La molecola nella maggior parte dei casi garantisce la perfetta guarigione dal tumore. Prima invece si moriva. Nel giugno 2013 un gruppo di cento oncologi da tutti i continenti ha firmato un articolo uscito su Blood, la rivista della Società americana di ematologia (e ripreso dal New York Times), denunciando il costo eccessivo del farmaco e spiegando come il gigante svizzero starebbe facendo profitto da capogiro sui malati. La polemica è scivolata nel silenzio dei governi di tutto il mondo.
Due anni fa negli Stati Uniti il costo del Glivec è cresciuto a 92 mila dollari all’anno, “nonostante i costi di ricerca fossero già compresi nella tariffa iniziale” e “la popolazione che stava assumendo il farmaco era aumentata”. Morale, “nel 2012 l’azienda fattura 4,7 miliardi di dollari”. Il prezzo di un farmaco oggi si basa soprattutto sul valore terapeutico previsto, anche se non risolve la patologia e prolunga soltanto di qualche mese la vita di una persona con effetti collaterali molto pesanti. La conclusione dei medici è che “il prezzo riflette il contesto geopolitico e socioeconomico” del Paese dove viene venduto “che non dipende dai costi di ricerca e sviluppo della molecola”. Il Glivec costa 24 mila dollari all’anno in Russia, 54 mila in Germania, 40 mila in Francia, 29 in Messico, per esempio. Il brevetto del Glivec è scaduto il 28 maggio del 2013. La Food and drug administration ha preferito prorogarlo fino a gennaio 2015. L’Ema (l’agenzia del farmaco europea) addirittura fino a marzo 2016. Intanto in Sud Corea, Canada e Israele esiste già il generico equivalente. La Novartis vorrebbe spingere il Tasigna (nilotinib) come farmaco di prima linea, finora usato nei pazienti intolleranti all’imatinib. “Il farmaco ha molte controindicazioni – spiega Carlo Gambacorti, ematologo e oncologo all’ospedale San Gerardo di Monza, che ha contribuito allo sviluppo preclinico e clinico del Glivec -: può causare ictus, infarti e trombosi negli arti”. A segnalare gli effetti collaterali del Nilotinib sono decine di oncologi di tutto il mondo che da oltre tre anni pubblicano gli inconvenienti del principio attivo sui loro pazienti su importanti riviste, dall’Americanjournal of hematology al Journal of the National Cancer Institute, punti di riferimento per la comunità scientifica internazionale. “Dopo aver scritto due articoli sugli effetti collaterali del Nilotinib – racconta al Fatto quotidiano un ematologo tedesco in anonimato – sono stato subito contattato dai responsabili della Novartis: ‘non avresti dovuto dire quelle cose a tutti’ mi hanno detto. E poi: ‘Dovevi aspettare e al massimo usare il condizionale’. L’azienda non mi ha più fatto collaborare con lei”.
Chiara Daina, Il Fatto Quotidiano 16/6/2014