Nicolò Cavalli, pagina99 14/6/2014, 14 giugno 2014
SE DRAGHI SPARTISCE I PANI E I PESCI
«In Germania si accusa la Bce di espropriare i risparmiatori tedeschi. Qual è il suo messaggio per loro oggi?». Ecco cosa si è sentito chiedere Mario Draghi durante la conferenza stampa di giovedì 5 giugno, quando ha annunciato misure per combattere la spirale deflativa che sta soffocando l’Europa. Infatti, mentre i mercati festeggiavano – con l’indice azionario di Francoforte che ha chiuso per la prima volta sopra i 10mila punti e i bond spagnoli e italiani a 10 anni agli stessi rendimenti di quelli statunitensi – Georg Fahrenschon, che rappresenta 418 casse di risparmio tedesche, lamentava: «L’effetto dei tassi negativi sarà di alienare i risparmiatori europei e distruggere il valore delle loro attività». Non tutti sono felici, insomma. Perché gruppi diversi subiscono in maniera diversa gli effetti delle strategie di Francoforte. Che oggi condivide con le altre tre maggiori banche centrali mondiali (la Fed, la Bank of England e la Bank of Japan) il segno di una politica monetaria espansiva, fatta di bassi tassi di interesse e interventi diretti per l’acquisto di titoli sui mercati.
Studiando gli Stati Uniti, l’Eurozona e l’Inghilterra, il McKinsey Global Institute ha calcolato nel 2012 che tassi d’interesse a livelli mai così bassi hanno avuto un effetto diretto e negativo nei confronti di compagnie assicurative e previdenziali, delle famiglie più anziane quelle con maggiori attività finanziarie –, infine delle banche. I creditori. Tutti soggetti i cui profitti sono direttamente legati all’andamento dei tassi di interesse. A beneficiare delle politiche delle banche centrali, invece, sarebbero state le famiglie più giovani, le imprese non finanziarie come quelle manifatturiere e, più in generale, la classe dei debitori, sottoposti a un peso minore sulle proprie passività. I governi, che nel sistema economico moderno sono strutturalmente i debitori più grandi, hanno visto guadagni da interessi per un valore di oltre 300 miliardi di euro nella sola Eurozona, e di oltre 900 miliardi di dollari negli Stati Uniti.
Martin Wolf, storico editorialista del Financial Times, ha applaudito queste politiche citando la necessità di una “eutanasia dei rentier”, espressione elaborata negli anni ’30 da Keynes per sottolineare come il desiderio dei risparmiatori di vedere tutelati i propri risparmi crei una pressione negativa sugli scambi, in particolare nei momenti di crisi, quando c’è un incentivo a immobilizzare il proprio denaro, sottraendolo dalla circolazione proprio quando servirebbe di più.
È quanto sembra avere in mente Draghi, che alla domanda sull’esproprio nei confronti dei risparmiatori tedeschi ha risposto: «Credo che qui ci sia una grossa incomprensione. I tassi che abbiamo modificato sono per le banche, non per i singoli individui. Certo, le banche commerciali possono reagire alla nostra decisione scegliendo di abbassare i loro tassi di interesse se pensano di doverlo fare, e questo si trasmetterebbe ai risparmiatori. Ma non siamo noi. È una decisione che prendono le banche. Quindi è completamente sbagliato suggerire che vogliamo espropriare i risparmiatori. Il nostro pacchetto di misure in realtà significa esattamente l’opposto. È volto a ristabilire la crescita, a promuovere la ripresa. E questo permetterà ai tassi di interesse di tornare a livelli più elevati». Come dire gentilmente al risparmiatore tedesco: aiutati che la Bce, questa volta, non t’aiuta.
Una rottura rilevante rispetto a una grammatica che aveva sino a oggi caratterizzato la pratica della banca centrale di Francoforte, stabilita col Trattato di Amsterdam del 1998. Nel pieno di quello che secondo Stephen King, capo economista della banca d’affari Hsbc, ha rappresentato per almeno quattro decenni un vero e proprio deficit cognitivo relativo al ruolo delle banche centrali, che le ha condotte a concentrarsi esclusivamente sulla stabilità dei prezzi (per la Bce, il focus esplicito ed esclusivo su un tasso di inflazione vicino ma inferiore al 2%). Tutelando così il valore delle attività dei creditori e i corsi azionari a discapito delle condizioni del sistema produttivo fino a porre con politiche eccessivamente accondiscendenti nei confronti dei mercati finanziari le condizioni per le ripetute crisi degli anni 2000.
A detta di Ian Harnett, della società di consulenza Absolute Strategy Research, il punto di svolta c’è stato cori l’arrivo, nel 1979, di Paul Volcker a capo della Federal Reserve statunitense. Nel pieno di una crisi che segnava la fine del modello basato sulle politiche di spesa attuate nel secondo dopoguerra e con l’inflazione a livelli superiori all’11%, all’inizio degli anni ’80 il focus si spostò dalle politiche fiscali – accusate di aver creato una spirale di aumento dei prezzi e recessione – alle politiche monetarie e fu così che Volcker introdusse una nuova politica basata sull’inflation targeting, ossia la restrizione della crescita della quantità di moneta immessa in circolazione della Fed. Un’espressione oscura con effetti ben concreti: l’obiettivo era infatti quello di tenere l’inflazione vicino al 2-3% su base annuale. Ma poiché i salari contano tra il 60 e l’80% dei costi totali delle imprese in ogni economia avanzata, l’unico modo per abbattere l’inflazione era quello di diminuire la crescita delle retribuzioni dei lavoratori.
Come? Alzando i tassi d’interesse, rendendo il denaro più costoso per le banche e quindi per le imprese più difficile ottenere prestiti e fare investimenti. Il che conduce ovviamente a un aumento della disoccupazione e a meno forza contrattuale dei lavoratori. La strategia di Volcker si rivelò di successo: nel 1983 l’inflazione passò al 3%, e la disoccupazione toccò il 10%. Erano gli anni della Grande Moderazione, caratterizzati da bassa crescita e bassa inflazione. Così, mentre la quota del lavoro sul totale dei redditi diminuiva, aumentava quella dei redditi da interesse, collezionati dai creditori, e quella di coloro che detenevano attività finanziarie. Una dinamica alla base della crescita dei redditi al top della piramide fino agli attuali, elevatissimi livelli. Come affermato da un recente studio di quattro economisti, guidati dal ricercatore del Fondo monetario internazionale Olivier Coibion, secondo cui le politiche monetarie tra il 1980 e oggi hanno causato un significativo aumento della diseguaglianza.
Infatti, l’idea che l’inflazione colpisca la parte più povera della popolazione «È semplicemente un mito – spiega Alan Binder della Princeton University e precedentemente vice-presidente della Fed – questo perché i poveri praticamente non hanno alcuna attività il cui valore può diminuire in termini reali quando aumentano i prezzi». Un questionario su 4500 famiglie statunitensi ha mostrato che queste detengono circa un quarto della loro ricchezza in attività finanziarie e oltre la metà in attività i cui ritorni sono legati più all’andamento dell’economia che alle pure politiche monetarie.
Neppure il fatto che le famiglie più povere detengano molto del loro denaro in forma contante, il cui potere d’acquisto tende a diminuire direttamente quando sale l’inflazione, è dirimente in questo senso: dall’Università di Toronto, Gustavo Ventura e Andres Erosa hanno infatti mostrato nel 2002 che si tratta di un effetto di dimensioni estremamente limitate. Al contrario, alcuni calcoli effettuati da Anthony Webb e Richard Kopcke del Center for Retirement Research del Boston College mostrano che le famiglie più ricche, che spesso coincidono con quelle più anziane, possono ottenere fino al 50% del proprio reddito da investimenti finanziari e quindi sono favorite da un ambiente caratterizzato da bassa inflazione e tassi di interesse relativamente elevati.
Il precedente presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, aderiva ancora completamente alla logica di Volcker, tanto che a fine 2011, nel pieno della crisi, decise di alzare di nuovo i tassi di interesse, che nel 2009 erano scesi di vari punti sulla spinta del crollo finanziario del post-Lehman Brothers. Tornare ad abbassarli fu il primo atto di Mario Draghi da governatore della Bce e forse in molti sottovalutarono la discontinuità rappresentata da questo atto rispetto alle logiche dell’istituto che governa la politica monetaria dell’eurozona. Anche l’annuncio del probabile quantitative easing, il programma di acquisto diretto dei titoli da parte della Bce, risponde a una logica diversa – volta almeno teoricamente a favorire l’economia reale rispetto ai corsi puramente finanziari.
Secondo una stima della Bank of England, gli attuali programmi di quantitative easing, attuati in Giappone, Usa e Inghilterra, hanno generato guadagni molto elevati per il 5% più ricco, riequilibrando così l’effetto negativo dei bassi tassi sugli stessi soggetti, ma hanno avuto un effetto relativamente limitato sul sistema produttivo. In questo senso Mario Draghi è stato molto attento a stabilire che la Bce, quando annuncerà il suo programma, acquisterà solo determinati tipi di titoli, in particolare quelli emessi a fronte di attività reali (Abs, o asset-backed secuirities), un mercato di titoli cartolarizzati fatto di luci ed ombre, e ancora poco sviluppato in Europa.
Quando nel 2008 il Congresso Usa diede l’ok al Troubled Asset Relief Program – il piano da 700 miliardi di dollari per ridare liquidità ai titoli che durante il crollo di Wall-Street erano crollati di valore – lo fece dopo un acceso dibattito al termine del quale si decise che era desiderabile finanziare i titoli di credito cartolarizzati in mano alle banche rispetto ai corrispondenti titoli in mano ai debitori che non erano in grado di ripagare i propri creditori. Scegliendo la finanza sulla cosiddetta economia reale, come era stato fatto fino allora ad ogni snodo cruciale delle condizioni economiche.
Privilegiare la seconda alla prima è scelta non banale, che potrebbe riscrivere le pagine di una storia, quella del sistema economico moderno, in cui non è ancora chiaro se i vari Draghi, Bernanke e Greenspan sono gli eroi o i cattivi, per dirla con un recente rapporto della London Bullion Market Association. Più in generale, tuttavia, c’è da interrogarsi sulla salute di un sistema economico in cui una manciata di persone che parlano in maniera oscura ha il potere di cambiare radicalmente l’andamento del trend economico.
«Mi sento uno scansafatiche», scrisse qualche anno fa il blogger Scott Sumner, «Questa mattina Ben Bernanke – l’ex banchiere centrale Usa – ha creato 250 miliardi di dollari in nuova ricchezza prima che io finissi di fare colazione». Le decisioni non convenzionali della Bce guidata da Mario Draghi possono essere un buon inizio per rimettere in ordine alcune priorità. Un dibattito più che mai opportuno oggi in Europa.