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 2014  giugno 14 Sabato calendario

OLIVETTI, UN PASSATO CHE NON TORNA A IVREA IL FUTURO NON C’È PIÙ


IVREA. Le case per gli operai, le villette per i quadri, l’auditorium in un vecchio stabilimento riadattato. A Ivrea le tracce dell’Olivetti sono dappertutto. E poi i palazzi storici: l’edificio in mattoni rossi dove ha preso il via l’epopea dell’azienda, la Palazzina Uffici, dove c’era il cuore della società. Persino la via principale ha a che fare con Olivetti, essendo dedicata a Guglielmo Jervis, comandante partigiano e ingegnere nell’azienda. A lui Adriano Olivetti concesse il titolo di “caduto sul lavoro”, occupandosi del mantenimento della moglie e del figlio.
Tracce, appunto, fantasmi di un passato che Ivrea fatica a dimenticare ma che non c’è più. Gli edifici dell’Olivetti sembrano quelli di un’antica civiltà scomparsa, sono lì a testimoniare un passato glorioso ma se n’è perso il valore d’uso.
Nel 1987 i dipendenti Olivetti erano 58.000, oggi sono meno di 600. Nella Palazzina Uffici, gli spazi dove hanno lavorato intellettuali del calibro di Paolo Volponi o Franco Fortini, sono occupati dai call center della Comdata e di Vodafone; i colleghi di Wind invece si sono stabiliti nell’edificio accanto: la seconda palazzina uffici, fatta costruire da Carlo De Benedetti negli anni ’80.
Dal 1999, anno in cui l’allora proprietario Roberto Colaninno l’ha utilizzata per organizzare la scalata Telecom – tramite la controllata Tecnost – Olivetti è completamente nelle mani dell’ex monopolista telefonico. Telecom si occupa di sceglierne i manager, decide le strategie aziendali e ripiana le perdite. Da quando Marco Tronchetti Provera la tolse dal listino di Borsa, Olivetti ha perso del tutto la sua già scarsa autonomia.
La crisi dell’Olivetti ha radici lontane e risale alla fine degli anni 80, quando Carlo De Benedetti scelse di abbandonare il mondo dell’informatica, dove era una delle aziende leader, per buttarsi sul nascente business della telefonia mobile. L’esperimento andò male e le due società create per operare su quel mercato –Infostrada e Omnitel – uscirono molto presto dall’orbita olivettiana.
Per l’azienda di Ivrea fu l’inizio di un incubo. Per salvarsi dai debiti fu costretta a vendere i gioielli di famiglia: nel 1997 l’Olivetti Personal Computers (Opc) di Scarmagno, mentre l’anno successivo tocca all’Olivetti Solutions essere ceduta agli americani della Wang Global.
«La vicenda Olivetti è stata la prima volta in cui un grande gruppo, una multinazionale, è stato fatto a pezzi. È stato un vero e proprio omicidio industriale», sostiene Federico Bellomo, segretario provinciale della Fiom ed eporediese doc. Difficile dargli torto a vedere i numeri dei lavoratori Olivetti: erano 58.000 nel 1987, scendono a 40.500 nel 1992, a 26.059 nel 1997. Oggi sono 550. «La storia industriale dell’Olivetti si è definitivamente chiusa – continua Bellomo – i dipendenti rimasti sono una piccola realtà di nicchia di un’azienda inserita all’interno della galassia Telecom. Commercializza prodotti a marchio Olivetti ma costruiti in estremo oriente, c’è poi un settore di tecnici e ingegneri che progetta registratori di cassa e di stampanti per il settore bancario o postale, poi prodotti in Cina. Nulla di paragonabile all’Olivetti del passato».
Di fronte alla scomparsa della sua azienda, Ivrea tenta di invertire il declino scommettendo sul mondo delle telecomunicazioni. Così fra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, punta a diventare la città dei call center. Sebbene si tratti di lavori a bassa specializzazione (e a bassi guadagni) sembra l’occasione per tornare a respirare dopo gli anni della crisi Olivetti. Inizialmente ci lavoravano solo i giovani in attesa di occupazione migliore, oggi ci lavorano persone tutte le età. «Non è più un’occupazione temporanea nell’attesa di trovare qualcosa di meglio», conferma Cadigia Perini ex dipendente Agile Eutelia e redattrice del blog collettivo “L’isola dei cassaintegrati”.
A complicare tutto però arriva la crisi, portando con sé le delocalizzazioni. Sebbene il settore sia ancora trainante per la zona, molti call center preferiscono chiudere per riaprire all’estero. Delocalizzare non è difficile, basta affittare la sede, portare i computer e assumere qualcuno che ha imparato la lingua vivendo in Italia per qualche anno.
«Il peccato originale delle telecomunicazioni a Ivrea è che nessuno ha pensato di insediare nel Canavese figure cardine, non solo di basso livello», dice Sergio Melis della Cisl Ivrea. «Oggi un telefonista può trovarsi ovunque, Comdata ha chiuso la sede piemontese per spostarla in Romania. Quando stava nascendo, proprio a Ivrea, la nuova realtà delle telecomunicazioni, perché nessuno ha pensato di costruire una filiera produttiva? E adesso vediamo i risultati. Con le delocalizzazioni negli ultimi anni i call center hanno perso almeno 1000 lavoratori».
Il problema non è solo lavorativo quanto di mancanza d’idee sul come ripartire, la città non si è ancora ripresa pienamente dallo shock prodotto dalla scomparsa dell’Olivetti e anche puntare sui call center non ha dato i risultati sperati. Le imprese in realtà non mancano, spesso sono fondate da ex dipendenti Olivetti che hanno portato con sé il know how aziendale.
Il problema è che quasi sempre impiegano pochi dipendenti e quasi tutti ad alta specializzazione. Troppo poco per sostituire un’azienda di grandi dimensioni.
Così oggi nelle terre dove Adriano Olivetti immaginava un mondo nuovo, inventarsi un futuro non è semplice. Da un paio di anni Ivrea sta cercando di essere ricordata più per la battaglia delle arance che per l’Olivetti, sperando di attirare i turisti al suo carnevale.
L’edizione 2014 è andata molto bene, stracciando tutti i record con 110mila presenze totali e 24mila biglietti venduti ai non-eporediesi (i locali non pagano l’ingresso). Ma basta una settimana di carnevale per una città di quasi 25mila persone?
Più in là, a San Giusto Canavese, si trova un altro grosso polo lavorativo dell’area: Telecittà, l00mila metri quadrati di studi televisivi. Qui viene girata la soap Centovetrine per Mediaset. Ci lavorano circa 300 persone fra maestranze e attori, senza contare le comparse che ogni giorno partecipano alla realizzazione. E anche le luci artificiali di una soap opera di questi tempi possono fare la differenza.
Il paradosso è che Ivrea non è una città povera, anzi. I lavoratori Olivetti erano fra i più pagati d’Italia e l’azienda garantiva un sistema di welfare che ha consentito a molte famiglie di mantenere standard di vita relativamente elevati.
«A volte l’azienda acquistava dei trattori per poi rivenderli a prezzo scontato ai lavoratori che avevano un pezzo di terra», ricorda Sergio Melis, «allora era considerato normale, quando questo sistema di welfare è mancato, però, l’impatto è stato devastante».
Così oggi Ivrea si può permettere di vivere sopra i propri mezzi grazie a quanto risparmiato nei decenni precedenti.
E in mancanza di un’alternativa reale, per i giovani si sono aperte due strade: cercare lavoro a Milano e Torino o iniziare a intaccare le risorse messe insieme dai padri durante gli anni d’oro dell’Olivetti come spiega amaramente Cadigia Perini: «Malgrado la crisi riusciamo a mantenere un livello di vita decente. Posso fare un esempio concreto: noi ex lavoratori Agile Eutelia sono sei mesi che non prendiamo la cassa integrazione in deroga ma a Ivrea c’è ancora una fascia di sicurezza, costituita da genitori e nonni che hanno buone pensioni e mantengono i figli che hanno perso o non trovano lavoro. Chi ha lavorato sta mantenendo chi non trova lavoro o l’ha perso».
Come dire che a Ivrea, in attesa di tempi migliori, gli anziani fungono da ammortizzatori sociali.