Nico Pitrelli, pagina99 14/6/2014, 14 giugno 2014
PAZZI CRIMINALI A CHI?
Era l’ultimo dell’anno del 2012 quando il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel consueto messaggio agli italiani, definì gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) «un autentico orrore indegno di un paese appena civile». A distanza di circa diciotto mesi dalla denuncia del Capo dello Stato, la Camera ha trasformato in legge, lo scorso 28 maggio, il decreto 52/2014, che introduce indirizzi, dispositivi e limiti per arrivare concretamente alla chiusura degli Opg entro il 31 marzo 2015. Si tratta di un’ulteriore proroga di un anno rispetto alle scadenze precedenti.
I gruppi che in questi anni si sono battuti per l’abolizione degli Opg hanno accolto con favore la nuova legge, anche se rimangono criticità e polemiche. Il rischio di una riforma a metà si concentra sulle cosiddette Residenze per le misure di sicurezza (Rems), nuove strutture su base regionale che dovrebbero essere costruite al posto degli Opg. Da una parte è elevata la probabilità che le Rems non siano pronte entro le scadenze poste dalla legge, dall’altra diverse associazioni per la salute mentale, tra cui la rete Unasam, la più importante a livello nazionale, rimangono contrarie alla realizzazione di quelli che sono stati ribattezzati mini-Opg.
Il rischio è di creare al posto degli attuali istituti nuovi piccoli manicomi. Più piccoli, magari più belli, più puliti, più arredati, ma pur sempre spazi di mero contenimento: in altre parole luoghi in cui si riproducono logiche istituzionali violente e non dove si attuano percorsi di cura e riabilitazione.
Lo scontro tra punti di vista è emerso anche di recente con un’iniziativa del giudice del Tribunale di Roma Paola Di Nicola, che in una nota inviata all’Associazione Nazionale Magistrati sostiene che la nuova norma rischierebbe di riportare in libertà soggetti «socialmente pericolosi». Continuare a usare la categoria della pericolosità sociale per incasellare i percorsi complessi di persone con disturbo mentale, che hanno commesso reato, desta molte perplessità.
Come scrive, a proposito della nuova normativa, il filosofo Pier Aldo Rovatti sulla rivista aut-aut dello scorso mese, ciò che è soprattutto in gioco nella vicenda degli Opg «è la contestata cancellazione di ogni pratica di manicomializzazione. In gioco – sottolinea Rovatti – c’è la misura storica e politica del grado di civiltà di un’epoca e di una società nel suo insieme. E a giudicare dal percorso tortuoso con cui si è arrivati all’attuale legge, non c’è dubbio che gli Opg si mostrino da una parte come il termometro più sensibile dei nostri pregiudizi nei confronti della diversità, dall’altra come lo specchio dell’azzeramento del nostro livello di civiltà.
Una commissione d’inchiesta parlamentare presieduta dall’attuale sindaco di Roma Ignazio Marino ha svelato, nel 2011, le condizioni di assoluto degrado in cui si trovavano le sei strutture giudiziarie distribuite sul territorio italiano. In un documentario distribuito ai giornalisti, risultato dell’indagine condotta su tutti gli ospedali del nostro paese (Barcellona Pozzo di Gotto, Aversa, Napoli, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia e Castiglione delle Stiviere), affiorano i fotogrammi di una realtà in cui qualunque parvenza di diritto e di rispetto per la persona umana è stata annullata.
Le immagini di muffa, lenzuola sporche, letti accatastati, spazi angusti, mura incrostate, con nessuna garanzia di privacy, pulizia e persino di terapie, sono rimbalzate sui media nazionali. Ed è stata una sconfitta ancora più bruciante per l’Italia, che grazie alla famosa legge 180 e al lavoro di Franco Basaglia e della sua equipe negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dispone oggi dell’assistenza alle persone con disturbo mentale più avanzata al mondo.
«Quello che colpisce come profondamente insensato di queste strutture, è la profonda contraddizione con i principi della legge 180». Giovanna Del Giudice, psichiatra e rappresentante nazionale di Stopopg, movimento impegnato nel miglioramento del decreto sulla chiusure degli Opg, sostiene che “con questa legge in Italia siamo riusciti ad affermare un concetto tanto semplice quanto rivoluzionario: la possibilità per le persone con disturbo mentale di restare cittadini, di essere titolari dei propri diritti, di non essere espropriati della propria dignità e del senso stesso della propria vita a causa di una diagnosi di malattia mentale. Siamo riusciti a smantellare l’idea della necessità di uno “statuto speciale” per chi soffre di problemi psichici. Tutto questo è smentito dall’insensatezza dell’Opg, fondata su legislazioni che prevedono percorsi speciali per le persone con disturbo mentale che hanno commesso un reato: il famoso doppio binario».
L’internamento negli Opg avviene quando queste persone sono giudicate, attraverso perizia, «totalmente incapaci di intendere e di volere» al momento del fatto-reato. Un aspetto cruciale è che la persona incapace non viene giudicata in un processo, ma prosciolta. In tal modo le viene sottratta la responsabilità del gesto che ha commesso. Se poi è dichiarata «pericolosa socialmente», e quindi si ritiene che possa reiterare il reato, viene internata in un Opg con una misura minima di sicurezza di 2, 5, 10 anni a seconda della gravità del reato.
Prima della legge attuale non veniva definita una durata massima; la dimissione degli internati avveniva solo quando non persisteva più la pericolosità sociale. Se questa permaneva, il magistrato di sorveglianza prorogava la misura di sicurezza e la persona continuava a rimanere a tempo indefinito nell’Opg, fino a nuova revisione della pericolosità.
Questo presunto legame tra pericolosità sociale e disturbo mentale svela il percorso storico su cui è innervato l’assetto del codice penale, che introduce misure di sicurezza nella prospettiva di un incontro fatale: quello fra culture giuridiche improntate alla “bonifica umana” e culture pseudoscientifiche intrise di biodeterminismo. Come spiega Peppe Dell’Acqua, a lungo direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste e collaboratore di Basaglia, «la ragione necessaria e dunque la motivazione di ogni invio in Opg è, in ultima analisi, il riconoscimento della pericolosità sociale all’atto dell’invio stesso. Alla pericolosità sociale presunta, accertata, temuta segue la misura di sicurezza. Alla misura di sicurezza consegue l’internamento in Opg o in casa di cura e custodia (che è sempre Opg). La persistenza della pericolosità è la ragione dell’internamento “senza fine”».
Diverse sentenze della Corte Costituzionale hanno sancito l’inconsistenza di questo approccio sul piano giuridico e disciplinare. Esse, continua Dell’Acqua, «stabiliscono che la pericolosità sociale non può essere definita una volta per tutte, come se fosse un attributo naturale di quella persona e di quella malattia. Deve essere vista come una condizione transitoria; relativizzata, messa in relazione ai contesti, alla presenza di opportunità di cure e di emancipazione in ordine alla disponibilità di risorse e di servizi».
Negli anni si è anche accumulata una corposa evidenza scientifica che dimostra l’assoluta inapplicabilità di elementi oggettivi per giustificare la possibilità di predire la pericolosità sociale in conseguenza di un disturbo mentale. Come afferma uno studio pubblicato nel 2009 sul Journal of the American Medical Association dal titolo Schizophrenia, Substance Abuse, and Violent Crime, gli atti di violenza da parte di persone con disturbi anche severi come quello schizofrenico, sono «eccezionalmente rari».
Una meta-analisi metodologicamente corposa e rigorosa pubblicata nel 2012 sul British Medicai Journal sanciva che i metodi sviluppati nel contesto della giustizia criminale per valutare il legame tra malattia mentale e “pericolosità futura” sono molto variabili nella loro accuratezza e concludeva che «il loro uso come unici elementi che determinano detenzione, condanna e scarcerazione non è supportato dall’attuale evidenza scientifica».
Il risultato a cui giungono queste e altre ricerche simili è che i rari atti di violenza da parte di persone con disturbo mentale, anche severi, sono determinati dalle condizioni socio-economiche o da altri fattori contestuali, più che dal disturbo stesso.
Va sottolineato che negli Opg più dei due terzi della popolazione, attualmente costituita da poco meno di un migliaio di internati, hanno commesso reati di poco conto, provengono da famiglie e contesti sociali disagiati e non abbienti. Non è un caso. «Quando i servizi di salute mentale di competenza non si fanno carico della persona», afferma Giovanna del Giudice, «il giudice non dimette e conferma la pericolosità sociale. Quindi, in particolare per l’assenza di una famiglia, di un contesto sociale accettante e tanto più di un servizio di salute mentale che propone una presa in carico della persona, si assiste ad un protrarsi indefinito e potenzialmente illimitato del periodo di internamento».
Sul sito forumsalutementale.it sono rintracciabili alcuni casi concreti di cosiddetti ergastoli bianchi, come quelli riportati in un recente contributo da un rappresentante di associazioni di familiari. Valerio Canzian racconta ad esempio la condizione di A., 40 anni, che circa vent’anni fa entrò in Opg senza aver commesso nessun atto efferato. A. non gestisce bene le relazioni in autonomia, quando è solo nel rapporto reagisce con schiaffi e spintoni. Finì in manicomio criminale per un episodio legato a questi comportamenti. Come scrive Canzian, «ogni sei mesi ad A. viene reiterata la pericolosità sociale perché nessuno finora si è preso la responsabilità di costruire un piano individuale adeguato alla sua inclusione sociale, quella possibilmente consona alle sue caratteristiche, verosimilmente, una comunità. Dopo 21 anni A. è ancora in Opg nonostante il magistrato di sorveglianza affermi non essere l’Opg un luogo appropriato per A.».
Qualche mese fa finirono alla ribalta dei media nazionali alcune vicende simili a quella di A. dall’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, uno dei più tristemente famosi dopo le inchieste di questi anni. Grazie all’impegno di un prete, don Pippo Insana, che è riuscito qualche anno fa ad aprire una Casa d’accoglienza per pochi fortunati usciti dal manicomio criminale siciliano, sono emerse storie al limite dell’incredibile. Come quella di Mario, che per una rapina di seimila lire è rimasto in Opg per ventidue anni. O quella di Salvatore, che per un’altra rapina è stato internato per trentasei anni. Piccoli reati che hanno segnato intere esistenze.
La nuova normativa vuole mettere la parola fine a tutto questo. I ricoveri, d’ora in poi, non potranno durare più del massimo della pena prevista per il reato commesso. Inoltre, in caso di reato commesso da persona con disturbo mentale, i giudici sono invitati a scegliere misure alternative all’internamento in un Opg. La nuova legge, dopo già due rinvii, oltre a fissare al 31 marzo 2015 la data ultima per la dismissione dei sei manicomi giudiziari presenti in Italia, definisce vincoli e tempi precisi per le Regioni per attuare il processo della chiusura.
L’indirizzo che emerge dal dispositivo intende poi superare o limitare come ultima risorsa l’uso delle Rems, a favore di un rafforzamento dei servizi sul territorio e più in generale di un rientro nel diritto e nel contesto sociale di chi è internato o chi rischia di diventarlo: dal carcere al centro di salute mentale, alla comunità terapeutica, all’abitare assistito alla cooperativa di lavoro, alla propria casa, ai programmi riabilitativo-territoriali. Anche il carcere è un luogo di diritto all’interno del contesto sociale.
Questo è uno dei punti accolti con maggiore soddisfazione da chi in questi anni si è battuto per la chiusura degli Opg. Fin dalla legge Marino 9/2012, la prima che stabiliva il superamento definitivo dei manicomi criminali, sulle Rems sono esplose infatti le criticità e le contraddizioni maggiori. I meccanismi per la costruzione delle Rems sono, ad esempio, molto complicati: appalti, capitolati, disponibilità delle risorse, tanto che in molte regioni la costruzione delle Rems non è neanche stata progettata. Allo stesso tempo, le Regioni inadempienti nella realizzazione delle strutture nei tempi previsti verranno commissariate da parte del governo.
Diverse associazioni, prima fra tutte Stopopg, non sono però preoccupate dei ritardi, anzi sostengono che i mini-Opg, non sono affatto una soluzione. «Poco conta – continua Dell’Acqua – che gli Opg chiudano, se al loro posto ne verranno riaperte altre, con un nome magari diverso, con una capacità di ricovero magari inferiore, se rimane intatto lo scheletro ideologico che li sorregge e giustifica la loro presenza istituzionale nella nostra società. La preoccupazione è che la costruzione dei mini-Opg rafforzi le psichiatrie della pericolosità e del farmaco, che già con prepotenza si vanno espandendo con tutta la loro riduttività».
La partita vera che attende i medici, i politici, le associazioni si gioca insomma di nuovo, come accadde per la 180, sul campo dei diritti. “La scommessa – conclude Dell’Acqua – è rimettere al centro i soggetti, la possibilità per le persone con disturbo mentale di restare cittadini, di avere la speranza di rimontare il corso delle proprie esistenze, perfino di guarire. Anche per chi ha commesso un reato”.
Nico Pitrelli