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 2014  giugno 17 Martedì calendario

BELINELLI LACRIME E GIOIA: «SONO CAMPIONE NBA»


Marco salta, urla, sbandiera il tricolore, ride. E piange. A dirotto, quando cita papà e mamma, «che hanno sempre creduto in me e mi hanno dato i mezzi per diventare quello che sono. Gli voglio un bene incredibile». «Sono campione Nba», lo ripete quasi per esserne sicuro. Non c’è nessuno che possa dirgli che non è tutto vero, negargli la gioia di essere diventato il primo italiano a conquistare l’anello dei pro’, dopo essere stato il primo a vincere la gara del tiro da tre punti all’All Star Game.
Sgomitate Entrare nello spogliatoio degli Spurs è impresa non da poco. Sgomiti, ti giri di scatto quando ti spingono alle spalle, salvo accorgerti che il «colpevole» è Tim Duncan, appena prima di mandarlo a quel paese... Poi scorgi Belinelli. Lo vedi subito, anche nel caos, perché ha la bandiera italiana sulle spalle, orgoglioso di se stesso e di rappresentare una nazione che con lui ha gioito e sofferto. Scorrono champagne e birra a fiumi. In un angolo, solo col telefonino in mano, c’è Austin Daye, figlio di Darren, ex Pesaro e Siena. Povero, non se lo fila nessuno. Non Marco, circondato da microfoni. Aveva parlato di una sorpresa in caso di vittoria, ora la può svelare: «Un tatuaggio col Larry O’Brien Trophy, probabilmente» sorride l’azzurro. Che poi si scatena: «E’ una cosa incredibile, sono partito da zero, ho vinto lo scudetto con la Fortitudo, poi sono andato a Golden State, dove non mi hanno dato fiducia. Ho faticato negli anni, soprattutto a Toronto. Ho fatto passi avanti, arrivando a Chicago, e ora qui, a vincere il titolo aiutando la squadra. Sono il primo italiano a riuscirci, ci sono tanti sentimenti che si mischiano. La dedico ai miei genitori, alla mia famiglia che mi è stata sempre vicina, anche nei momenti difficili. E a chi mi ha criticato e mi diceva “Torna, non sei bravo, non sei grosso, non difendi”. Ma conta vincere e io l’ho fatto».
Robinson Alle sue spalle c’è David Robinson, la faccia della franchigia texana. «Siamo una squadra incredibile — prosegue Marco quasi lo vedesse e ricordasse cosa significa essere uno Spur —. Ha vinto il gruppo, dal primo all’ultimo giocatore. Abbiamo passato momenti fantastici anche fuori dal campo. E poi abbiamo il miglior allenatore del mondo. Popovich è super. Ha sempre creduto in me, mi ha spinto, mi è sempre stato vicino, facendomi sentire parte integrante della squadra. Ha dialogo con tutti, è una grande persona prima ancora di un grande allenatore. L’ho visto che nemmeno festeggiava tanto, ne aveva già vinti quattro di titoli. Ma per me è il primo...». Lo ripete quasi ossessivamente, forse per rendersi davvero conto di cosa sia accaduto pochi minuti prima sul parquet. Dove ha lungamente abbracciato Ginobili.
Manu Cosa si sono detti? «Ci siamo parlati in italiano, abbiamo detto: «Ce l’abbiamo fatta, assieme». Se penso da dove siamo partiti... Mi allenavo con lui alla Virtus Bologna, avevo 15 anni, ero un ragazzino e ora abbiamo vinto il titolo da compagni. Cercate d’immaginare le emozioni che provo. E’ stato un abbraccio fantastico che non dimenticherò mai».Il sentimento dominante, oltre alla scontata gioia, in Marco è «liberazione. Nonostante tutto ci ho sempre creduto, ho cercato di migliorarmi, non volevo passare per quel giocatore che non vince, che viene criticato. Che altro dire? Che inizi la festa». E’ iniziata da un pezzo. Kawhi Leonard gira abbracciato al trofeo di mvp, con un sigaro in bocca. Poco più in là, la clac di Tony Parker salta e canta cori in francese.
Obiettivo Marco riesce a trovare la lucidità per dire che «ora il mio obiettivo è migliorare. Ho imparato molto qui, per me era tutto nuovo quest’anno. La scorsa stagione giocavo 35-40’ a partita coi Bulls e siamo arrivati in semifinale di conference, ma a Ovest il livello è più alto. Devo crescere in difesa, nelle letture dei giochi d’attacco, non mi sento arrivato. Sono contento ma tra 3-4 mesi si riparte e l’obiettivo è vincere, voglio riprovare queste sensazioni tutti gli anni!». E poi via, a far festa con amici e parenti, prima di recarsi alla Trattoria Tre a far l’alba con la squadra. Da campione Nba. Un italiano. Chi l’avrebbe detto? Forse solo Marco Belinelli.