???, La Stampa 17/6/2014, 17 giugno 2014
Gerani. Violette. Tendine ricamate. Una madonna di ceramica celeste sulla porta di ingresso. E poi, davanti alla casa del presunto assassino di Yara, alle nove di sera c’è un bambino con le lentiggini che si aggira sulla ghiaietta
Gerani. Violette. Tendine ricamate. Una madonna di ceramica celeste sulla porta di ingresso. E poi, davanti alla casa del presunto assassino di Yara, alle nove di sera c’è un bambino con le lentiggini che si aggira sulla ghiaietta. Avanti e indietro, circondato da una banda: «Io ho visto la signora Marita sul balcone – racconta agli altri bambini – aveva un vestito rosa e piangeva. Piangeva fortissimo. Non smetteva mai di piangere». Erano già arrivate cinque auto dei carabinieri. I militari stavano sequestrando scarpe, vestiti e il computer del Massimo Bossetti. La signora Marita aveva saputo del fermo. Suo marito era stato preso al cantiere e portato in caserma a Bergamo. E su tutti gli atti giudiziari c’era scritto in alto il nome di Yara Gambirasio. Così hanno capito di cosa si trattasse. Non si era mai visto tanto trambusto. Questa è la frazione alta di un piccolo paese incredulo. Un paese fatto di strade in curva, di vecchie cascine ristrutturate e villette moderne, chiese enormi, campi di mais. La famiglia di Massimo Bossetti era venuta a vivere qui quattro anni fa. Siamo a sette chilometri dal cantiere dove Yara è stata trovata uccisa, a dieci dalla casa della famiglia Gambirasio a Brembate. E nessuno aveva mai avuto il minimo sospetto su questo muratore con una piccola impresa individuale, su questo devoto e rispettato padre di famiglia. «Massimo ha tre figli. Due sono bambine di otto e dieci anni. Domenica hanno fatto la cresima del primogenito. Prima la cerimonia, poi sono andati a festeggiare al ristorante di Fontanelle». Chi parla è un uomo stranito, si chiama Valter Gambirasio (nessuna parentela con la famiglia di Yara). Lui abita al numero 4, la casa del presunto assassino è al numero 5. È una piccola via interna di casette infradiciate da un acquazzone. Quella della famiglia Bossetti è gialla. I nonni abitano al piano terra, genitori e bambini sopra. «A ripensarci ora, la cosa che mi colpisce di Massimo è la sua severità - dice il vicino - era un padre davvero duro. Spesso lo sentivamo urlare. Sgridava molto i suoi figli. L’altra cosa che mi colpisce sono le sue origini di Clusone, in alta Val Seriana. Ma non mi aveva mai parlato di Yara. E non era mai stato sottoposto all’esame del Dna». Clusone è vicino a Gorno, dove abitava Giuseppe Guerinoni, il padre naturale del killer, secondo le analisi dei carabinieri del Ris. Mancava all’appello la madre, mancava l’assassino. Questa è un’indagine che è andata anche lontanissimo, fino ad inseguire un muratore marocchino in mezzo al Mar Mediterraneo, ma alla fine era tutta qui. Locale. Bergamasca. Almeno questo sembra oggi. E i bambini, sotto la cascina con le tendine di pizzo, parlano fitto in dialetto: «Quel papà era cattivo. Non faceva mai uscire i figli a giocare con noi». Sono arrivati al presunto assassino dopo più di 18 mila analisi del Dna, eppure tutto riporta all’inizio. Alla strada. A un furgone bianco da muratore. A un muratore che probabilmente lavorava nel cantiere di Mapello. Ancora non c’è una conferma ufficiale in questo senso. Ma molti in paese ricordano Massimo Bossetti al lavoro proprio nella zona dove Yara è stata trovata uccisa. «Era o non era nell’elenco degli operai del cantiere di Mapello?», si chiedono tutti. «Magari lavorava in nero», dice una signora con il grembiule intorno alla vita. E così, tutta questa storia angosciante potrebbe essere durata tanto a lungo solo per questo motivo: perché il nome di Massimo Bossetti non era nell’elenco ufficiale degli operai impiegati. È notte. Ricomincia a piovere. Le signore radunate all’angolo della strada si sbracciano: «Impossibile. Una persone così perbene. Come me, come te... Non può essere vero». Dalla casa della famiglia Bossetti esce l’avvocato Matteo Anzalone: «Non parlo. Non mi è ancora stato affidato ufficialmente l’incarico». Entra don Claudio, si apre la porta, e per un attimo senti la nonna in singhiozzi. «No – ripete il vicino di casa – Massimo non mi ha mai parlato di Yara. Nemmeno per commentare le ultime notizie. Lui parlava solo di lavoro. E del suo grande sogno: voleva comprare una vecchia cascina per ristrutturarla completamente». Dentro la casa del presunto assassino, fotografie di bambini, cornici d’argento, quadri e ninnoli, un crocefisso in sala da pranzo, una tovaglia a fiori rosa, un ordine perfetto. Ed era tutto così tranquillizzante, ed era tutto così vicino.