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 2014  giugno 16 Lunedì calendario

LA FORZA DELLE DONNE


ROMA
Un inno al coraggio delle donne, che nelle situazioni estreme sono sempre in prima linea. Vince la vita anche nella desolazione di una città devastata dai bombardamenti in Call the midwife L’amore e la vita , serie cult della Bbc osannata dalla critica, che racconta il lavoro delle ostetriche nel quartiere delle Docklands, il più povero e malfamato della Londra del dopoguerra. Campione di ascolti in Inghilterra (è la fiction più vista con oltre 11 milioni di spettatori, insieme a Downton Abbey e Sherlock 3), in questa estate tv dominata dai Mondiali arriva in Italia, dal 7 luglio su Retequattro.
Dalle macerie si ricostruisce, una lezione che dagli anni 50 vale sempre. I giornali inglesi sottolineano come la serie inquadri perfettamente il periodo storico che preannuncia la rivoluzione sociale. A tenere il filo è l’ostetrica Jenny Lee (Jessica Raine): nata in una famiglia dell’upper class, accetta il lavoro nella clinica Nonnatus House, gestita dalle suore anglicane, e affronta una realtà durissima. Accanto a lei l’infermiera Trixie (Helen George), la volenterosa Cynthia (Bryony Hannah) e l’aristocratica Camilla Cholomondely- Browne, detta Chummy, (la meravigliosa Miranda Hart), stangona goffa che si realizza aiutando gli altri. Al centro l’evento, potente, delle nascite: l’eroismo quotidiano delle levatrici pronte a correre sulle bici nei vicoli e nei tuguri, s’intreccia con le maniere brusche delle suore che fanno miracoli in sala parto; ma anche al destino di ragazze madri, prostitute, anziani soli e orfani. Il mondo di Call the midwife è dolore misto a coraggio, ricorda le pagine di Dickens, è la fotografia di una società feroce che metteva ai margini i poveri.
La serie s’ispira al libro di Jennifer Worth Chiamate la levatrice (pubblicato da Sellerio) che ripercorre come in un diario la sua esperienza di ostetrica negli anni 50, ricordando la miseria nera delle Docklands (oggi zona residenziale) con le baracche, gli incontri indimenticabili. «I medici fanno bella mostra di sé, dispensando perle di saggezza» scrive «le infermiere, buone o cattive, non mancano di certo. Ma le levatrici? Eppure il mestiere della levatrice è il materiale stesso del dramma e del melodramma. I bambini vengono concepiti nel dolore o nella lussuria, nascono nel dolore e nella sofferenza, sono causa di immensa gioia o atroci tormenti. Una levatrice assiste a tutte le nascite, si trova nel cuore della storia, vede e sente tutto. Perché allora continua a rimanere una figura in ombra, nascosta dietro la porta della sala parto?».
Oggi quella porta si apre grazie alla sceneggiatrice Heidi Thomas (Usptairs, downstairs), che ha scritto la fiction, prodotta dalla società del regista Sam Mendes (American beauty), e già distribuita in oltre 200 paesi, compresi gli Stati Uniti, dove ha avuto critiche entusiaste. «Quando ho cominciato a leggere il libro» racconta la Thomas «ho capito subito che Call the midwife era un documento sociale, la descrizione di un mondo con cui poterci identificare ma che è svanito ai nostri occhi. Era commovente ma anche divertente, l’ho letto tutto d’un fiato». «Parlavo con un attore che è medico» racconta Jessica Raine «mi spiegava che far nascere un bambino è sempre emozionante... Pensi che forse ci si abitua a fare il mestiere dell’ostetrica ma non è così, è un colpo al cuore tutte le volte: c’è una nuova vita nella stanza. Il miracolo si ripete. Cercavo di ricordarmelo quando maneggiavo un bambolotto».
Rendere credibili i parti è stato il lavoro più complesso. «Non sempre i neonati arrivavano nel giorno in cui si girava la scena», spiega il produttore esecutivo Hugh Warren «così le attrici facevano pratica con i pupazzi, ed è stato molto utile». «Abbiamo cercato la verità in tutti i dettagli» aggiunge la regista Philippa Lowthorpe «la storia si basa sulla vita reale delle persone, ho chiesto agli attori di essere naturali. Con la costumista Amy Roberts siamo andati a trovare le suore, ormai molto vecchie, protagoniste del libro, e Sister Christine ha tirato fuori la tunica che usava in quel periodo: la stessa che indossano le attrici».

Silvia Fumarola, la Repubblica 16/6/2014