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 2014  giugno 16 Lunedì calendario

QUANDO SPINOZA SOGNAVA IL MODELLO DI UN’ALTRA EUROPA


E se fosse Spinoza l’autore in cui cercare un punto di riferimento in una fase in cui è sempre più difficile orientarsi sul piano filosofico e soprattutto politico? E se perfino questa Europa, sospesa tra vecchi nazionalismi e nuovi populismi, prestasse qualche attenzione alla Repubblica delle Sette Province Unite olandesi in cui egli visse, godendo di insolita libertà intellettuale all’interno di un continente insanguinato da guerre ininterrotte?
Certo, quella sorta di zona franca, di felice anomalia, che furono i Paesi Bassi rispetto agli Stati assoluti, si chiuse presto, come la condanna e l’espulsione di Spinoza dalla comunità ebraica testimoniano. Eppure Il sogno di Spinoza — come s’intitola il romanzo di Goce Smilevski appena tradotto da Guanda — continua ad interpellarci non solo sul nostro passato, ma anche sul nostro futuro.
In verità esso non tratta di questioni politiche e considera solo di scorcio la prospettiva filosofica di Spinoza. Di cui delinea, però, con maestria, il mondo interiore — turbamenti, emozioni, ossessioni. La vita, in continuo transito tra Amsterdam, Rijnsburg e l’Aia; il mestiere, singolare per un filosofo, di tornitore di lenti; le amicizie, tra cui quella, forse sul punto di scivolare in passione, con la sua giovane maestra di latino Clara Maria Van den Enden, e l’altra con l’allievo, studioso di Cartesio, Joan Casearius.
Forse nulla più del libro di Robert Burton sulla malinconia, insieme al celebre dipinto di Rembrandt Lezione di anatomia del dottor Tulp , in cui lo scalpello del medico penetra nelle carni aperte di un cadavere, restituiscono il clima di quegli anni e anche qualcosa della psicologia di Spinoza — pensatore della vita perché perennemente ossessionato dalla caducità dell’esistenza. La sua stessa idea di una sostanza infinita ed eterna, in cui Dio coincide con la natura delle cose, può essere interpretata anche come il punto di resistenza nei confronti di qualcosa che ci viene sottratta in un modo inaccettabile e prepotente.
La resistenza all’oppressione e all’intolleranza è, d’altra parte, la cifra dell’intero pensiero di Spinoza. In particolare di quel saggio contro ogni forma di teologia politica che curiosamente ha proprio il titolo di Trattato teologicopolitico.
«Un libro forgiato all’inferno», come fu definito dai nemici del filosofo e adottato come titolo della monografia spinoziana, adesso tradotta da Einaudi, di Steven Nadler. Autore già di un altro lavoro su Spinoza e l’Olanda del Seicento, nonché di un originale saggio su Descartes, dal titolo Il filosofo, il sacerdote e il pittore , entrambi editi da Einaudi, Nadler riesce nella difficile impresa di presentare il complesso pensiero di Spinoza ad un ampio pubblico senza tradirne i contenuti peculiari.
Ma che cosa c’è di tanto scandaloso nel suo Trattato? Cosa ne fa un libro maledetto destinato alla distruzione e all’oblio? Si tratta di una coraggiosa, almeno per allora, difesa dell’autonomia della filosofia, e anche della politica, dalla invadenza della religione. Rifiuto dei miracoli e del ruolo divino dei profeti, riduzione della provvidenza all’insieme delle leggi di natura, attribuzione della Bibbia all’opera dell’uomo sono i contenuti blasfemi in base ai quali Giordano Bruno era stato bruciato appena pochi decenni prima. Qualcosa di non meno pericoloso delle scoperte astronomiche che Galileo fu costretto ad abiurare. Ma l’elemento forse più rilevante in termini politici sta nella maniera in cui la negazione del carattere trascendente ed onnipotente della Persona divina si traduce nel rifiuto di quella del monarca. Ecco ciò che differenzia Spinoza da Hobbes. Come questi, anch’egli è alla ricerca di una forma politica che metta fine al caos delle guerre di religione. Ma anziché individuarla nello Stato Leviatano, vale a dire nel potere assoluto che condiziona la protezione dei sudditi alla loro obbedienza, lo individua in una forma di democrazia che, contro il modello monarchico e aristocratico, rispetta la libertà dei cittadini. Con ciò Spinoza non intende negare il principio di autorità politica, ma sottoporlo ad una legittimazione diffusa in base alla quale il diritto di definire quello che è nell’interesse di tutti spetta al popolo stesso.
Per certi versi Spinoza non fa che riprodurre in forma radicale il regime politico della Repubblica olandese della seconda metà del secolo, assediata dagli eserciti delle monarchie assolute. Essa era governata, in forma federale, dai rappresentanti delle Sette Province Unite, provenienti dal ceto mercantile delle città olandesi, gelose della propria indipendenza nei confronti sia della Chiesa che, almeno entro certi limiti, dello Stato centrale. Allorché Johan de Witt, deputato permanente di Dordrecht e punto di riferimento politico dei democratici radicali, fu assassinato, quel modello che rappresentava un’eccezione vistosa nell’Europa del tempo crollò, perdendo le sue connotazioni più peculiari. La messa al bando dell’opera di Spinoza fu anche conseguenza di questa restaurazione. Ma tale esito non cancella, né sul piano filosofico né su quello politico, il significato di quello straordinario esperimento. Al suo centro era il progetto, fino allora inaudito, di una federazione costituzionale che escludeva ogni carica centralizzata e onnipotente. Ad ogni provincia era invece riconosciuto il diritto di avere i propri rappresentanti, senza per questo indebolire la loro unione, cui restavano le competenze della politica estera e finanziaria.
Quali suggestioni tale modello costituzionale possa contenere per un mondo, come il nostro, che ha conosciuto la crisi di tutti i Leviatani, non è difficile intuire. Persino l’Unione europea potrebbe riprodurne qualche tratto, nel difficile equilibrio tra unità e differenze nazionali. Naturalmente senza omologare situazioni e problematiche separate da secoli di storia e di pensiero. Se però ricordiamo l’insistenza di Spinoza sulla necessità di contenere le inevitabili spinte passionali nei limiti della razionalità, possiamo ricavarne un’indicazione che muove in direzione contraria sia a un’idea di sovranità trascendente — al potere assoluto degli Stati sovrani — sia agli impulsi anarchici e irrazionali che alimentano la crescita dei nuovi populismi.

Roberto Esposito, la Repubblica 16/6/2014