Enrico Franceschini, la Repubblica 16/6/2014, 16 giugno 2014
“IL MARKETING EDITORIALE? MEGLIO SESSO E HUMOUR”
[Intervista a Howard Jacobson] –
Si possono ancora scrivere romanzi che non siano cinquanta sfumature di sesso, noir svedesi, storie di vampiri, rivisitazioni dell’Inghilterra Tudor, confessioni di vite stravaganti o libri di cucina mascherati? È il dubbio che assilla Guy Abelman, scrittore ebreo inglese di mezza età la cui carriera sembra essersi arenata, deluso da un editore secondo cui la carta è totalmente obsoleta, dominato da una moglie che aspira a fargli concorrenza e attratto dal desiderio di portarsi a letto la suocera. Avete letto bene: la suocera. La trama di Prendete mia suocera (pubblicato in Italia da Bompiani), ultima opera di Howard Jacobson, vincitore nel 2010 del Booker Prize, più prestigioso premio letterario britannico, oscilla tra la commedia erotica e l’ironica denuncia dello stato della letteratura contemporanea, prigioniera del marketing, dei cliché, delle mode. «Quando uno scrittore scrive di scrittura, è nei pasticci», ammette per primo il suo protagonista. Ma in questo caso l’autore lo smentisce, scrivendo un romanzo avvincente, divertente e provocatorio, accolto dalla critica del suo paese come una dichiarazione d’amore per le donne, la narrativa, l’umorismo, e già tradotto con successo in mezza Europa. «Il problema non è che nessuno scrive più buoni romanzi», dice Jacobson. «Il problema è che nessuno sembra avere più voglia di leggerli».
La prima domanda non ha a che fare con lo stato della letteratura, ma con la suocera, figura classica della cultura italiana e anche di quella ebraica. È davvero possibile innamorarsene? C’è qualcosa di suo nell’ossessione del protagonista?
«Mi spiace deluderla: niente di autobiografico. La mia attuale suocera ha 101 anni, quindi è fuori discussione. Mi sono sposato tre volte e talvolta penso di avere avuto più fortuna con le suocere che con le mogli, ma innamorarsene è un altro discorso. Immaginare una love-story con la suocera, tuttavia, mi ha permesso di capovolgere i luoghi comuni e le battutacce che circolano da sempre in questo campo. E poi volevo scrivere del fascino che può avere la donna matura. E della rivalità madri-figlie. E del disperato tentativo di fare qualcosa di scioccante in un’epoca che rifiuta di lasciarsi scioccare».
L’altro grande amore del suo protagonista è il romanzo. Il “vero” romanzo, non la forma commerciale che così spesso occupa le classifiche dei best-seller. È diventato più difficile scrivere romanzi di questo tipo?
«Sì. Lo è sempre stato, anche ai tempi di Joyce e Conrad, ma ciò non deve impedirci di ammettere che la pressione commerciale è cresciuta, è sempre più sofisticata e agguerrita, né di rammaricarcene. Ogni scrittore desidera il successo commerciale. Ma vorrebbe ottenerlo per quello che scrive, non perché dà ai lettori ciò che gli suggerisce il marketing».
Dal suo romanzo emerge la nostalgia per il tempo in cui i libri erano “fonte di saggezza”. Fa venire in mente Midnight in Paris di Woody Allen: siamo condannati a vivere in un’era di progressi tecnologici e inarrestabile declino artistico?
«Non c’è mai stata un’epoca in cui la vita non sembrasse culturalmente o moralmente in declino. Credere che siamo in declino è una necessità umana. Io sono favorevole al progresso tecnologico, ne faccio pieno uso. Ma sono altrettanto convinto che ci danneggi vivere attraverso uno schermo digitale. E che internet, con tutti i suoi benefici, sia un nemico della lettura e della parola. Non è solo il fatto che oggi leggiamo più velocemente e con più impazienza. È che leggiamo con diverse aspettative. Vogliamo informazioni. Vogliamo chiarezza. Ma la letteratura non è informazione né chiarezza».
A un certo punto il protagonista fa una distinzione fra “trama” e “storia”. Lei come le interpreta?
«Non si può scrivere senza avere una storia da raccontare. Se una persona ti guarda negli occhi, hai una storia. Quando un personaggio si alza dal letto e si trasforma in uno scarafaggio, è una storia. E io amo le storie. La trama invece è macchinazione e svolgimento: omicidio, mistero, suspense. Tutte cose in cui non ho il minimo interesse. Non ho mai letto un thriller perché fa gelare il sangue».
Lo scrittore che scrive un romanzo su uno scrittore che scrive un romanzo ha molti precedenti. Non aveva paura a percorrere un simile campo minato?
«I romanzi su scrittori che scrivono romanzi sono disastri quando si prendono sul serio, quando sono pomposi e auto celebrativi. Il mio obiettivo era far ridere davanti allo stress dello scrivere, tirando qualche cazzotto al funzionamento dell’industria editoriale. Era rischioso, ma camminare su un campo minato mi attirava».
Perché gli scrittori di origine ebraica sembrano avere una predisposizione per umorismo e sesso?
«Forse perché sappiamo per esperienza, personale o familiare, che la vita è più tragica che buffa. Quanto al sesso, penso che ne scriviamo con più accanimento di altri perché lo consideriamo una faccenda maledettamente seria, anche quando pare che ne sorridiamo».
Il romanzo è apparso condannato a scomparire molte volte. Sopravviverà a internet?
«Non temo per la salute del romanzo in sé: ne vengono ancora scritti di fantastici. Temo per i lettori. Se continueremo a perdere la capacità di leggere, chi leggerà quei fantastici romanzi?».
Cosa significa vincere il Booker a 68 anni, come le è accaduto quattro anni fa?
«Non c’è momento migliore per vincerlo. Vincerlo quando sei giovane significa imporsi un terribile onere: da quel momento dovrai provare quello che vali, sarai esaminato sotto la lente di ingrandimento per ogni libro successivo al fine di verificare se lo hai vinto per caso o per sbaglio. Ma quando lo vinci dopo avere già scritto tanto e alla mia età, non devi dimostrare più niente. Anzi, il premio riflette una luce benigna anche sui tuoi libri precedenti. Ringrazi e incassi, tutto qui».
Enrico Franceschini, la Repubblica 16/6/2014