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 2014  giugno 16 Lunedì calendario

CAPPON: “LA TV PUBBLICA SI SALVERÀ SOLO DIVENTANDO TRASGRESSIVA”

[Intervista] –

ROMA.
L’informazione, innanzitutto. Poi l’innovazione e la modernità. E infine, la valorizzazione dell’industria nazionale dell’audiovisivo. Sono i tre cardini su cui — secondo l’ex direttore generale della Rai Claudio Cappon, l’unico finora che abbia ricoperto due volte quel ruolo — può essere rifondato il servizio pubblico.
Da sette anni, Cappon rappresenta l’Italia nell’EuropeanBroadcasting Union (Ebu), l’Associazione delle televisioni pubbliche europee, di cui ora è vice-presidente. In questo periodo, ha visto da vicino come funzionano e, sulla base della sua esperienza, avverte che «oggi l’idea di servizio pubblico — come il welfare — è in discussione in tutta Europa»: perciò, a suo giudizio, «anche il taglio di 150 milioni di euro imposti dal governo alla Rai può essere il catalizzatore per riaprire in Italia un grande dibattito sul futuro dell’azienda, coinvolgendo magari la società civile. Tra il 2008 e il 2013, del resto, la Rai aveva già tagliato 400-450 milioni, pari a circa il 20% dei costi».
Da che cosa deriva questa crisi generale della televisione pubblica?
«Il servizio pubblico radiotelevisivo è una componente tipica della storia sociale e culturale europea. E con 25-30 miliardi di euro all’anno, resta ancora il più grande investimento pubblico. Ma in un’epoca di risorse scarse la questione è all’ordine del giorno in tutta Europa, dalla Gran Bretagna al Portogallo. Tanto più che il mutamento completo dello scenario editoriale, con la diversificazione delle piattaforme e la moltiplicazione delle tv digitali, riduce la percezione della necessità di avere ancora il servizio pubblico, soprattutto fra i giovani. Non si può più conservare lo statu quo: è arrivato il momento, e anzi noi siamo già in ritardo, di discutere se ed eventualmente in che forma mantenerlo».
Qual è la sua opinione personale in proposito?
«Penso che la radiotelevisione pubblica abbia tuttora un’utilità importante, a cominciare proprio dall’informazione: quella della tv commerciale è un’informazione mitologica, fatta di vecchi stereotipi nazionalistici e di cliché. Non a caso ormai le reti private non hanno più corrispondenti all’estero. L’informazione televisiva s’è omogeneizzata a livello mondiale, è un tubo universale, un prodotto preconfezionato. In Ungheria, per esempio, si registra una forte ondata di anti-semitismo ed è per così dire un danno collaterale di questa crisi. La tv pubblica resta un presidio fondamentale».
Che cosa bisogna fare, allora, a suo parere?
«Le televisioni pubbliche devono investire di più dove le altre investono di meno. Non penso a un’informazione istituzionale, ufficiale, paludata. Ma piuttosto a un’informazione non convenzionale né tranquillizzante, scomoda, in un certo senso trasgressiva, che garantisca l’accesso critico alla diversità su temi che non necessariamente attraggono audience. E questo, ovviamente, costa. Basta con la nostalgia del passato, qui occorre coraggio: come ha fatto, per esempio, la tv pubblica belga con una trasmissione sulla sessualità dei disabili che ha vinto anche un premio europeo. Oppure, la Bbc che ha intrufolato per un anno un cronista che poi ha raccontato dall’interno come funziona la polizia inglese».
Lei, però, conosce bene i condizionamenti della politica sulla Rai…
«Guardi, in realtà sono minori di quanto si pensi. E peraltro esistono in tutti i Paesi europei. Qui conta l’indipendenza delle perso ne, la schiena dritta dei direttori e dei giornalisti».
Sì, d’accordo. Ma è necessario anche cambiare il contesto legislativo, riformare la “governance” dell’azienda.
«Basta rifarsi all’esperienza degli altri Paesi: è necessario mettere le distanze, i filtri, tra i vertici e gli organismi di gestione. In Germania, vi sono addirittura tre livelli diversi».
Non ritiene, dunque, che sia valida l’idea di affidare il pacchetto azionario della Rai a una Fondazione che a sua volta nomina un consiglio di amministrazione ristretto, con un amministratore delegato con pieni poteri?
«Le soluzioni possono essere varie. Ma è opportuno comunque separare l’organo di vertice, rappresentativo della società civile e anche del Parlamento, da quello di gestione che dev’essere il più professionale e autonomo possibile. Il modello è il Trust della Bbc».
Che cosa vuol dire innovazione e creatività, l’altro pilastro della rifondazione?
«Significa avere il coraggio di sperimentare programmi diversi, sfruttando le moderne tecnologie, per favorire un rinnovamento dei linguaggi e delle proposte. La tv tende per sua natura a essere ripetitiva. E proprio per questo, l’Ebu ha ipotizzato di destinare una percentuale fissa del budget a programmi innovativi, a fondo perduto: è un po’ come la ricerca per l’industria farmaceutica. Bisogna fare spazio ai giovani più creativi».
E quale dev’essere in futuro il rapporto tra la Rai e l’industria dell’audiovisivo?
«Con una metafora ambientalista, direi che l’obiettivo strategico è quello di coltivare la biodiversità culturale. Gli inglesi la chiamano “creative industry”: va dalla fiction ai cartoni animati. La televisione pubblica europea deve diventare una grande palestra per valorizzare le tradizioni, le competenze e i talenti dei rispettivi Paesi».

Giovanni Valentini, la Repubblica 16/6/2014