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 2014  giugno 16 Lunedì calendario

“MCDONALD’S CRESCE E ASSUME E IL 94% DEI POSTI SONO FISSI”

[Intervista a Roberto Masi] –

Logo e marchio sono quelli della multinazionale per antonomasia, la realtà di McDonald’s – dopo quasi 30 anni in Italia – si è fatta anche locale. Un legame, quello tra l’hamburger americano e gli italiani, così appassionato da aver generato agli inizi anche un movimento giovanile – i paninari – e che negli anni si è evoluto, stoppato, ripreso, rivoluzionato. Fino ad avere un ruolo nel tessuto economico e occupazionale del Paese. Ci racconta le tappe Roberto Masi, amministratore delegato di McDonald’s Italia.
McDonald’s oggi è una realtà italiana, come è riuscita a farcela nella terra di Slow Food e di Eataly?
«Grazie a una storia lunga, iniziata nel 1985 con l’apertura del primo ristorante a Roma. Siamo partiti timidamente perché l’hamburger non era ancora bene accetto, poi c’è stata un’accelerata negli anni Novanta con l’acquisizione della catena italiana Burghy. Tra il 2000 e il 2002 una pausa dovuto a mucca pazza, dal 2006 siamo ripartiti ma ci portavamo ancora dietro lo stereotipo della multinazionale dell’alimentazione poco sana e molto calorica».
Quando è stato il momento della svolta?
«Nel 2007, quando abbiamo deciso di investire in un cambio di strategia in Italia e di riposizionarci da fast food a casual restaurant. Per farlo abbiamo iniziato con il cambiare gli ambienti. Noi nascevamo “fast” non solo come food ma anche come “dining esperience”, eravamo spartani. Abbiamo cercato un design più accogliente, sedute più comode, arredi che piacessero alle famiglie. Abbiamo aggiunto il wi-fi gratis, le caffetterie McCafé, e questo ci ha obbligato a introdurre divanetti, giornali a disposizione dei clienti, iPad. Questa formula più accogliente ha portato nuove tipologie di consumatori e di consumo».
E quando siete intervenuti anche sui prodotti?
«Nel 2007 importavamo ancora le mele dalla Repubblica Ceca... Io mi sono detto: ma come, l’Italia è un grande produttore di mele, dalla Valtellina alla Val di Non... da lì è cominciata la “localizzazione” dei nostri fornitori e oggi sono italiani per l’85%. La carne è italiana dal ’95-96, da quando abbiamo acquisito Burghy da Cremonini, che è il nostro fornitore storico. E per il pollo abbiamo un accordo con Amadori da 15 anni almeno».
Carne, mele, verdure per le insalate, ma McDonald’s è anche tonnellate di patatine...
«Le patate valgono per noi il 10%, ma l’Italia non ne è un grande produttore. Non siamo ancora riusciti a trovare una azienda che possa soddisfare i nostro volumi, ma ce ne è una che si sta allargando proprio per diventare nostro fornitore. La nuova frontiera di McDonald’s sarà la patata Made in Italy».
Nel 2012, in piena crisi, avete lanciato una campagna di assunzioni importante - 3000 posti in tre anni - ora una ricerca Sda Bocconi misura l’impatto occupazionale e parla di 24.072 posti di lavoro nel 2013, di cui 17500 dipendenti diretti; ma è occupazione buona, stabile?
«A offrire un lavoro più stabile di così ci sono poche aziende in Italia. Facciamo per il 94% contratti a tempo indeterminato, di cui il 21% sono di apprendistato. Usiamo molto il part time e questo per qualcuno non è garanzia di stabilità. Invece noi crediamo non vada criminalizzato, l’Olanda ne ha fatto un cavallo di battaglia perché è una opportunità, per esempio per le mamme lavoratrici. Noi ne facciamo largo uso soprattutto perché in Italia non c’è sufficiente flessibilità sull’orario. Chi ha l’80% del mercato - pizzerie e trattorie - manda i dipendenti a casa tra il turno del pranzo e quello della cena. Noi che rappresentiamo il 2% del mercato non possiamo spezzare l’orario in questo modo, ma anche nei nostri ristoranti, se dalle 12 alle 14 c’è bisogno di 40 persone, dopo ne bastano due».
Per il reclutamento avete ideato il sistema del McItalia Job Tour, perché spettacolarizzarlo come un casting?
«L’idea è nata in un momento di grande frustrazione; era l’autunno del 2011, lo spread era al massimo, un governo cadeva e un altro si insediava, tutti si chiedevano solo che fine avrebbe fatto il Paese. Noi siamo andati al ministero e abbiamo detto: va bene i tagli ma bisogna dare anche speranza, noi mettiamo sul tavolo un investimento di 500 milioni di euro e 3000 assunzioni, ci sono altre aziende disposte a farlo con noi? Ma poco dopo c’è stata una nuova crisi di governo e noi siamo rientrati in azienda decisi a far da soli. Se fossimo state almeno 20 aziende, l’impatto sarebbe stato diverso. Comunque noi ci abbiamo creduto e ci siamo inventati una campagna tv che abbiamo affidato a Salvatores. Dopo i primi spot del 2013 abbiamo ricevuto 400mila curricula in un mese. Per affrontare una domanda enorme ci sembra meglio andare noi nelle piazze dei luoghi in cui stiamo aprendo».
Come sono andati gli hamburger da gourmet di chianina e fassona, e quelli firmati da Marchesi?
«Nel 2013 abbiamo venduto due milioni di panini di chianina e piemontese; vogliamo avvicinarci ai gusti locali e faremo il giro d’Italia a rotazioni periodiche; il cliente ci chiede novità e in autunno avrà le grandi carni di Marche e Romagna».
Per i Mondiali che cosa vi siete inventati?
«Ogni volta che l’Italia vince, festeggiamo offrendo un Big Mac, il nostro bestseller, o un prodotto sempre diverso; se perde o pareggia, ci consoliamo offrendo da bere».
E offrire il wi-fi gratis paga?
«Così siamo diventati un punto di riferimento per gente che lavora in movimento e per i giovani. Per noi è da sempre un valore essere aperti a tutti, infatti non ci vergogniamo di offrire dei bagni pubblici».
Lei ha fatto un percorso contrario a tanti manager italiani. Ha studiato negli Usa ed è tornato a lavorare qui. Perché?
«Quando ho finito gli studi avevo ricevuto un’offerta proprio da McDonald’s e sarei rimasto volentieri là ma mio padre mi aveva chiesto di tornare a occuparmi dell’azienda di famiglia; poi ho fatto altre esperienze anche nel settore finanziario e mi sono fermato 15 anni in Carrefour in Italia e all’estero. E sono arrivato a McDonald’s dopo 20 anni da quella prima offerta negli Usa. Era destino».

Sara Ricotta Voza, La Stampa 16/6/2014