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 2014  giugno 15 Domenica calendario

L’UOMO DELLE STELLE

[Intervista a Luca Parmitano] –

ROMA
È il primo italiano che ha sfidato la voragine buia dell’universo e la perfezione muta del nulla. Il Cristoforo Colombo del nuovo millennio ha il volto di Luca Parmitano, trentasette anni, siciliano. È un maggiore dell’aeronautica e lavora per l’European Space Agency. Ora è stato chiamato da Renzi per fare da ambasciatore del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea. Il fisico scolpito ne restituisce l’atleta, l’indole disciplinata del militare, mentre negli occhi balena l’estro imprevedibile di chi viaggia anche con la mente a distanze siderali. I suoi predecessori sono sempre rimasti dentro la navicella, lui no, è andato oltre, mettendo piede nello Spazio. Per centosessantasei giorni — dal 28 maggio all’11 novembre dello scorso anno — è rimasto in orbita, ospite della Stazione Spaziale Internazionale. Per due volte ha aperto il portellone della camera di compensazione e si è incamminato nel vuoto. Un’avventura che ora ha la consistenza del sogno e il timbro della malinconia. Perché chi ha viaggiato oltre la storia e la geografia fa fatica a tornare sulla Terra. «Ho superato un limite che è proprio dell’immaginazione. Una nuova prospettiva per cui non è stato ancora inventato il linguaggio».
Che cosa intende?
«Quella spaziale è una condizione inimmaginabile, che non è cresciuta con l’evoluzione umana. Le culture dell’uomo sono nate dall’osservazione, da cui poi scaturiscono un linguaggio e un pensiero. Staccarsi da Terra è un esperienza inedita, per cui fatico a trovare le parole».
Che cosa l’ha spinta a lanciarsi nello Spazio?
«Qualcuno l’ha chiamato il gene di Ulisse, un codice che portiamo scritto nel nostro Dna. È quella pulsione che davanti a un orizzonte ti spinge a domandarti cosa ci sia oltre. L’istinto a superare ogni confine, che è prima di tutto mentale. Fin da bambino il cielo notturno ha esercitato su di me un’attrazione inspiegabile. Una voce che mi chiama. Forse è quella che Colombo avvertiva dal mare».
E che cosa ha scoperto?
«Moltissimi limiti li abbiamo inventati noi. Pensi ai confini tra i vari paesi della Terra. Dallo Spazio non si vedono. Si vedono solo terre e mari. Capolavori assoluti».
I limiti di cui lei parla sono il prodotto della storia.
«Ma da lassù noi siamo invisibili. Ed è invisibile l’opera dell’uomo. Grandi porti, grandi aeroporti, le conquiste del progresso. Scompare tutto allo sguardo di chi vive in orbita. Però questo accade di giorno. Di notte è un’esplosione di luci, e quelle luci siamo noi».
Si rovescia la prospettiva.
«Completamente. L’Europa, vista dall’alto, è una cascata luminosa. La vita delle grandi capitali disegna un’ininterrotta scia luccicante. Ricompare in questo modo l’impresa umana. E nel contrasto tra ciò che è invisibile durante il giorno ed è visibile di notte ho intravisto la nostra piccolezza, ma anche la capacità di evolvere. E costruire».
Lei come ha costruito la sua vita da astronauta?
«Mi piacerebbe dire che ho scelto, in realtà non è così. Una scelta implica una carriera, con una progressione già definita. Mentre approdare nello Spazio significa compiere un percorso, affidato a ripetuti tentativi. Posso solo dire che il mio è stato un sogno. Il sogno di dare un contributo all’esplorazione spaziale, e dunque all’evoluzione dell’uomo».
Ma da Catania a Houston, qual è la strada?
«I mie genitori sono insegnanti, a casa ho assorbito la passione per la lettura e dunque per l’immaginazione. Sono cresciuto con il realismo magico di García Marquez, i viaggi di Chatwin e le invenzioni fantascientifiche di Dan Simmons, il migliore nel suo genere. Dopo normalissime scuole pubbliche, mi sono diplomato all’accademia dell’Aeronautica Militare e ho cominciato a viaggiare per il mondo. Texas. Germania. Belgio. Francia. Russia. Ora Houston. Vivere in cinque paesi significa vincere lo shock dell’alterità, imparare nuove lingue, impadronirsi di mondi sconosciuti. Prima di superare il limite dello spazio, ho imparato ad abbattere frontiere mentali e culturali».
Anche il suo profilo appare sfaccettato: un militare un po’ filosofo, laureato con tesi in diritto internazionale e ingegnere spaziale.
«Seguire la regola non significa rinunciare all’immaginazione. Quelli del nostro corso, in Accademia, furono i primi a laurearsi in scienze politiche: una richiesta dell’Aeronautica Militare che avrei capito soltanto più tardi. Da pilota sperimentatore è stato necessario approfondire gli studi ingegneristici. Forse anche nella mia formazione ho superato rigidi confini disciplinari».
Nel 2007 ricevette una medaglia per il coraggio in volo.
«Si riferisce all’episodio sulla Manica? Andai a sbattere contro un enorme uccello, riportando gravissimi danni all’aereo che pilotavo. Avevo due possibilità: lanciarmi fuori o l’atterraggio d’emergenza».
Lei preferì la seconda soluzione, mettendo a rischio la sua vita ma non quella degli altri.
«Mi venne istintivo fare così».
Ma un’avventura extraterrestre modifica anche la percezione di se stessi?
«Questa è una cosa più difficile da dire. Spesso provo un moto di nostalgia, una sorta di “mal di Spazio”, sì, un po’ come il mal d’Africa. Ti manca quella dimensione che trasforma in straordinario ogni gesto ordinario. L’assenza di peso fisico ti dà anche una leggerezza interiore. Dal centro di controllo mi dicevano che sorridevo sempre. È vero, ero felice».
La prima cosa che ha visto quando è uscito a spasso nello Spazio?
«Non l’ho vista, l’ho sentita. Il nulla. L’universo s’annuncia non allo sguardo, ma all’udito. Un silenzio irreale. Come se improvvisamente qualcuno spegnesse il sonoro. Tutto d’un tratto s’interrompe l’assordante scampanellìo degli strumenti che cozzano sul tuo scafandro. Continui a vedere gli oggetti che si toccano, eppure non senti più niente. Avverti solo la ventola che mette in circolazione l’aria dentro la tuta. È quello il suono della vita».
«Un nero diverso da tutti gli altri. È assenza di colore, l’assoluta mancanza di luce. È come se tutto si perdesse là dentro, nel buio del vuoto».
Si ha la sensazione di perdersi?
«In un certo senso sì. Come se si potesse essere risucchiati da una voragine. Ma la cosa che più mi ha colpito è la sensazione di essere a mio agio. Forse perché l’avevo immaginato un’infinità di volte: questo è il mio momento, ho pensato, è qui che devo essere».
«La paura è come un rumore di fondo, nei momenti di stress c’è sempre. Però siamo abituati a conviverci, e a tradurla in un sentimento reattivo.
Pensi a una stanza buia, la prima cosa che ti viene da fare è cercare la luce. Nel caso di una missione aerospaziale la luce è la conoscenza, il lungo addestramento, le centinaia di ore passate sott’acqua. In fondo la paura è uno strumento dell’evoluzione umana».
Come l’ha raccontata alle sue figlie?
«Ho scritto loro una lettera: il cammino non esiste finché non si fa il primo passo. Vale sempre, indipendentemente dal percorso scelto. L’importante è amare camminare».
Ma durante la vita in orbita cambia il mondo emotivo e sentimentale?
«Non saprei dire. Certo la distanza ti crea paradossalmente una più forte vicinanza. Staccandomi dalla Terra me ne sentivo lontano, però anche più legato all’intera umanità. Un sentimento d’amore che non conoscevo. Ho capito cosa sia il mito della “Terra Madre”. Ti viene da abbracciarla, vorresti carezzare la sabbia o farti inebriare dal vento».
Quasi un rapporto erotico.
«Direi fisico. In orbita non ci si può sdraiare né sprofondare. Non esiste la sabbia né il vento. Non senti i profumi. Alcune sensazioni tattili scompaiono completamente. L’assenza di queste percezioni scatena l’immaginazione».
Qual è lo spettacolo più bello del mondo?
«L’orizzonte terrestre, che sembra contenere la risposta a tutte le domande. Non solo la curvatura della Terra ma l’atmosfera intorno: sottile, fragile, trasparente. Là ho visto fenomeni di una bellezza indescrivibile, come le nubi “nottilucenti”: colpite dai raggi del sole diventano di un blu turchese che fatico a descrivere. Il colore della fantasia e dell’invenzione».
Ha mai immaginato di incontrare un extraterrestre?
«No, non è stato un mio pensiero. Certo non si può escludere che in un pianeta lontanissimo e irraggiungibile ci sia qualcosa di parallelo a ciò che noi chiamiamo vita. Ma è qualcosa che non fa parte della nostra esperienza, dunque estraneo al ciclo dell’acqua. Certo non credo agli omini verdi con le antennine».
Tornato sulla Terra, cosa vede che prima non vedeva?
«La perfezione delle cose. Quando ero in orbita, sorvolando il Pacifico del Sud fui ipnotizzato da una formazione di nubi straordinariamente simmetrica. Scattai una fotografia intitolandola Il cielo perfetto. In realtà si trattava di un ingenuità. Il cielo è sempre perfetto, così come sono sempre perfetti il mare o gli occhi delle mie figlie. Soltanto che non ce ne accorgiamo. E soprattutto non ce ne stupiamo più. È bellissimo lasciarsi sorprendere».
Ora il viaggio continua in Europa.
«Sì, mi ha scelto Palazzo Chigi per fare da ambasciatore del semestre di presidenza italiana. Anche per questo mi sento un privilegiato».
Perché l’hanno scelta?
«Per raccontare la mia storia, che è quella di un italiano».
Dovrebbe rappresentare l’Italia del merito, il paese che funziona.
«Sì, il senso è questo. Il nostro carattere nazionale tende all’autodenigrazione. Invece esiste un “sistema Italia” che continua a esercitare fascino nel mondo. Il traguardo che ho raggiunto non è soltanto mio ma di un’intera comunità. Un paese che ha dato tanto, e molto ricevuto dall’Europa. E la ricchezza degli incroci non vale solo in ambito aerospaziale».
Che cos’è la malinconia dell’astronauta?
«È il sentimento di una perdita. Per sei mesi ho vissuto un’esperienza straordinaria, che ho cercato di trattenere in tutti i modi. Scrivendo e fotografando. Creando una memoria. Ma dal momento in cui ho rimesso piede sulla terra, il corpo mi ha comunicato che ero rientrato nell’ambiente normale della gravità del peso. E questa reazione naturale ha cominciato a trasformare la mia vita in orbita in un ricordo che ha la consistenza del sogno. Se chiudo gli occhi riesco a vedere perfettamente quello che ho fatto, ma è come se guardassi un’altra persona. La malinconia nasce da qui».

Simonetta Fiori, la Repubblica 15/6/2014