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 2014  giugno 15 Domenica calendario

IL GRANDE SPRECO DI STATO TRA STAMPANTI E SCRIVANIE 30 MILIARDI DA RISPARMIARE


ROMA.
È un segreto di Stato. Nessuno sa quali siano le regole da applicare nei contratti tra gli amministratori pubblici e i fornitori di beni e servizi. È un patchwork da quasi 130 miliardi l’anno con oltre 32 mila soggetti — stazioni appaltanti, in burocratese — che decidono con i soldi dei contribuenti. Se si limasse questa spesa del 10%, riducendo le “stazioni” a 30 o 40, azzerando la discrezionalità e le mediazioni politiche, si libererebbero più risorse di quelle necessarie per il bonus da 80 euro. C’è chi stima che si arriverebbe fino a 30 miliardi di risparmi.
Va alzato il velo sui dati, però. Questo dovrebbe diventare il cuore della prossima legge di Stabilità: tagli mirati, semplificando la giungla degli appalti dove tutto alla fine può succedere. Il ministero dell’Economia ha incaricato il Sose, una sua controllata, di collezionare i costi dei vari enti per gli stessi beni e servizi, di renderli comparabili e pubblici. Qualcosa però si può già capire dai dati del Tesoro sul 2012. Tavoli, sedie, stampanti, computer e programmi Microsoft vengono da pianeti diversi a seconda di chi li compra. E i ministeri sembrano appaltatori più incompetenti di comuni, provincie, regioni, università o aziende sanitarie.
Una «sedia operativa», cioè la sedia classica dell’impiegato, costa in media 90,09 euro se comprata da un’amministrazione centrale. Ma il prezzo scende a 78,14 euro, con un risparmio del 13,26 %, se l’acquisto avviene attraverso la Consip, la società pubblica che centralizza in grandi contratti circa il 10% dei 130 miliardi spesi ogni anno in beni e servizi. Ci sono anche casi estremi. Una stampante individuale costa 214,95 euro se acquistata fuori convenzione, prezzo che precipita a 39 euro quando la stampante è presa invece tramite Consip. Vuol dire una differenza dell’81,86%. Ma ci sono anche i 573,87 euro che le amministrazioni spendono in media per ciascun portatile fuori convenzione Consip, rispetto ai 483 con convenzione. E che dire del costo di un minuto al telefono fisso o cellulare? Quando il contratto con l’operatore è concluso senza Consip, l’onere è di oltre il 70% più alto. E dell’57% più alto per ogni messaggio sul telefonino. Domenico Casalino, amministratore delegato di Consip, è convinto che i margini per tagliare la spesa siano ampi: «Dieci miliardi o più — dice — se si centralizzano gli acquisti per comparare e rendere trasparenti gli acquisti, affidandosi ai software e attenendosi ai costi standard».
L’Autorità di controllo sui contratti pubblici (Acvp), alla cui guida ieri è stato nominato Raffaele Cantone, stima che si avrebbero risparmi fino al 14,6% se nella Sanità ci si attenesse a una griglia di prezzi di riferimento sui servizi di lavanderia, ristorazione e pulizia. Per i farmaci, poi, la spesa si ridurrebbe del 7,4% e sui dispositivi medici del 26.
Anche la Corte dei conti, nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica, nota incongruenze in quelle che chiama le «spese per gli organi istituzionali». Questi sono gli stessi ovunque, con gli stessi telefoni, sedie, tavoli, auto e la stessa benzina per farle andare. Ma nel 2012 il peso per abitante è stato di 10,5 euro nelle regioni del Centro, 11 euro al Nord e 24,9 euro al Sud. Ci sono poi disparità in cui a fare peggio sono le aree più ricche del Paese. I contratti di licenza e assistenza software costano 2,7 euro per abitante nelle regioni a statuto ordinario e 14,7 euro nelle aree autonome o a statuto speciale: in primo luogo Trento, Bolzano, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta. Per non parlare di «noleggi e locazioni», che in queste regioni e provincie dell’arco alpino costano per abitante cinque volte più che nei territori a statuto ordinario. E nel costo pro-capite delle utenze telefoniche pubbliche è il Nord-Ovest d’Italia a presentare le bollette più salate (in media 132 euro).
Difficile però distinguere l’incompetenza dal puro e semplice ladrocinio. Ci hanno provato tre economisti italiani, Oriana Bandiera, Andrea Prat e Tommaso Valletti, con un studio che è diventato un caso internazionale. Lo ha pubblicato l’ American Economic Review , che non dà spazio quasi mai a articoli su un singolo Paese estero. Ha fatto un’eccezione per l’Italia, perché i numeri di Bandiera, Prat e Valletti sono eccezionali. I tre hanno lavorato con la banca dati Consip sugli scarti fra regioni o enti nell’acquisto di 21 articoli come benzina o stampanti. I loro risultati sono sorprendenti. In primo luogo, hanno scoperto che se tutti gli uffici spendessero per gli stessi beni come il 10% più virtuoso, il risparmio sarebbe di 30 miliardi. Ma soprattutto lo studio dell’ American Economic Review usa un modello matematico per dividere l’incompetenza dalla disonestà: secondo i tre economisti, l’83% è «spreco passivo », dovuto a inefficienza, mentre il 17% è «spreco attivo» da razzia e ruberie.
La corruzione trova terreno fertile nel percorso che si snoda dalle migliaia di stazioni appaltanti fino ai piccoli che vivono di subappalti. Accusa la Commissione europea: «In Italia la corruzione risulta particolarmente lucrativa nella fase successiva all’aggiudicazione, soprattutto nei controlli di qualità o di completamento dei contratti. La Corte dei conti ha più volte constatato la correttezza della gara, il rispetto delle procedure e l’aggiudicazione dell’appalto all’offerta più vantaggiosa, ma la qualità dei lavori è poi intenzionalmente compromessa nell’esecuzione ». Sembra di vedere il film dei lavori per l’Expo o per la Tav, perché è proprio nelle grandi opere pubbliche che la Corte dei conti stima il giro d’affari da corruzione intorno al 40% del valore dell’appalto. Sempre i magistrati contabili hanno calcolata che la corruzione vale 60 miliardi l’anno. Una cifra enorme, anche se alcuni economisti la considerano in difetto per eccesso. Di certo non molto lontano dalla realtà. D’altra parte, nota la Commissione Ue che l’alta velocità è costata in Italia 47,3 milioni di euro a chilometro sulla Roma-Napoli e 96,4 milioni tra Bologna e Firenze, mentre la Parigi-Lione è costata 10,2 milioni, e 9,3 milioni la Tokyo-Osaka.
La risposta del governo è chiara: disboscare le stazioni appaltanti. La scure è arrivata con il decreto Irpef ora all’esame della Camera: «Il numero complessivo dei soggetti aggregatori presenti sul territorio nazionale non può essere superiore a 35» (articolo 9, comma 5 del decreto numero 66). La bozza della riforma per il codice degli appalti preparato dal viceministro delle Infrastrutture Riccardo Nencini si muove nella stessa direzione. Ridurre le stazioni vuol dire ridimensionare le possibilità di corruzione e collusione. Quest’ultimo peraltro è un problema sempre più evidente: l’autorità Antitrust di recente ha aperto sette istruttorie per ipotesi di cartello fra imprese negli appalti anche se, guarda caso, gli enti segnalano sospetti o anomalie solo molto di rado.
Ma i risparmi, se e quando arriveranno, sono destinati a creare anche contraccolpi sull’economia. Gustavo Piga, economista ed ex presidente di Consip, avverte che un sistema basato sui grandi contratti può colpire migliaia di imprese familiari che oggi vivono di piccoli appalti. Questa riforma rischia di riscrivere la geografia dell’apparato produttivo italiano, lasciando fuori la stragrande maggioranza dei fornitori. Sostengono i rappresentanti gli artigiani delle Cna e l’Ance, l’associazione dei costruttori, che così «si uccide un pezzo di economia locale». Già oggi le gare (quando ci sono) vengono vinte dai Consorzi industriali e dalle cooperative che — denuncia la Cna — prima affidavano i subappalti ai piccoli mentre ora accentrano tutto, fino ad assorbire la stessa manodopera locale.
Il Paese è dunque a un bivio: tagliare la spesa significa togliere ossigeno ai piccoli, proprio mentre invece le leggi e le mosse del governo incentivano le imprese a mantenere una taglia ridotta. Basti pensare alle misure sui mini bond, a quelli sulle garanzie creditizie o ai contratti di lavoro più flessibili quando l’impresa è sotto la soglia dei 15 addetti. Ma per il governo è tempo di scelte. E come diceva Milton Friedman, nessun pasto è gratis: anche, ma non solo, nelle mense pubbliche.

Federico Fubini e Roberto Mania, la Repubblica 15/6/2014