La Stampa 15/6/2014, 15 giugno 2014
PER IMPARARE A SCRIVERE GUARDATE UN FALEGNAME
[William Faulkner, nel 1947, risponde agli studenti dell’Università del Mississippi] –
Popeye (in Santuario) è ispirato a un prototipo umano?
«No. Simboleggia semplicemente il male. Gli ho dato due occhi, un naso, una bocca e un cappotto nero. Era un’allegoria. Non è un buon libro. Mi sono sbagliato in quel ritratto perché per me era impossibile avere un approccio scientifico».
Popeye doveva avere delle caratteristiche simili al Satana di Milton?
«No. Questo significherebbe che un tratto è buono o cattivo di per sé. Bisogna guardare il risultato. Qualunque cosa che porti disperazione è sbagliata. La coerenza si misura solo con il risultato. Bisogna espandere il personaggio per farlo durare fino alla fine del libro».
Qual è il suo miglior libro secondo lei?
«Beh, Mentre morivo è stato il più facile e il più divertente. L’urlo e il furore ancora continua a smuovermi. Go down, Moses - l’ho cominciato pensando a una raccolta di storie brevi. Dopo la revisione sono diventate come sette diverse facce di una stessa cosa. È semplicemente una raccolta di storie brevi».
Come sceglie le parole?
«Nella foga di buttarle giù ne vengono fuori molte. Se ci torni sopra, ci lavori e suonano ancora vere allora lasciale».
InLe palme selvaggela tecnica che usa è automatica? Se è così, perché?
«Ho usato quella tecnica semplicemente come un espediente automatico per dare forma alla storia che volevo raccontare, la storia di due diversi tipi di amore. Un uomo che rinuncia a tutto per amore di una donna e un altro che rinuncia a tutto per fuggire dall’amore».
Che cosa sa del libro che verrà fuori prima di iniziare a scriverlo?
«Molto poco. Semplicemente comincio a scrivere. Il personaggio si sviluppa insieme al libro e il libro si sviluppa scrivendolo». [...]
Ha scritto Santuario per attirare l’attenzione su di sé oppure è stata un’impresa seria?
(mortificato): «Il motivo principale era che avevo bisogno di soldi. Avevo già scritto due o tre libri che non avevano venduto. Scrissi Santuario per vendere. Quando glielo inviai l’editore mi disse: “Oh Signore! Non possiamo pubblicarlo. Ci metteranno tutti e due in prigione!”. Non era ancora arrivato il periodo del sangue e delle budella. Appena cominciarono a vendere dei libri così, decisero di pubblicare Santuario. Mi ripresi le bozze e dissi: “No”. Ero indebitato e obbligato per contratto con il mio editore e alla fine, con la sua continua insistenza, mi decisi a pubblicarlo. Lo riscrissi completamente. Bozze interamente rifatte. Per questo motivo non amavo quel libro e non lo amo ancora oggi».
Come trova il tempo per entrare in un’atmosfera e in uno stato d’animo che conciliano la scrittura?
«Bisogna sempre trovare il tempo per scrivere. Chiunque dica che non ha tempo vive in una finzione. Da questo deriva l’ispirazione. Non aspettare. Quando hai un’ispirazione buttala giù in fretta. Prima la butti giù più forte sarà l’immagine. Non aspettare che passi per cercare di ricatturarne la sensazione e il colore».
Quanto tempo ci mette a scrivere un libro?
«Uno scribacchino te lo può dire. Il tempo varia. Ho scritto Mentre morivo in sei settimane, L’urlo e il furore in sei mesi, Assalonne, Assalonne! in tre anni».
Si dice che lei scriva due libri alla volta. È consigliabile?
«È ok, ma non se si ha una scadenza. Scrivete finché avete qualcosa da dire».
Qual è il miglior allenamento per scrivere? Corsi, esperienza, o cosa?
«Leggere, leggere, leggere. Leggere tutto – robaccia, classici, buoni e cattivi, e vedere come fanno. Come un falegname che lavora come apprendista e studia il maestro. Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, buttate tutto dalla finestra».
Va bene copiare uno stile?
«No. Se avete qualcosa da dire, usate il vostro stile. Sarà la storia a scegliere il suo stile narrativo. Quello che vi piace si manifesterà attraverso lo stile». [...]
Stiamo degenerando? (dal punto di vista letterario)
«No. Leggere è qualcosa di necessario, un po’ come il Paradiso o un colletto pulito, ma non è importante. Vogliamo la cultura, ma non vogliamo impegnarci troppo per averla».
Suona come una critica al nostro modo di vivere.
«La critica serve. Tutti vogliono aiutare le persone, convertirle al Paradiso. Scrivete per aiutare la persone. L’esistenza di questa classe di scrittura creativa va bene per impegnare il tempo e imparare a scrivere in un periodo della vostra vita in cui il tempo è la cosa più preziosa che possedete».
Qual è l’età migliore per scrivere?
«Dai trentacinque ai quarantacinque è il periodo migliore per scrivere romanzi, il fuoco non si è spento, l’autore conosce più cose. È una scrittura lenta e il fuoco dura di più. Dai diciassette ai ventisei anni è l’età migliore per scrivere poesia. Scrivere poesie è come andare sulle stelle – tutto il fuoco è condensato in una stella. La poesia più notevole la scrivono i giovani uomini».
E cosa ci dice di Shakespeare?
«Ci sono delle eccezioni. Scrisse tanto in gioventù e negli ultimi anni».
Perché ha smesso di scrivere poesie?
«Quando scoprii che le mie poesie non erano granché ho cambiato strumento. All’età di ventuno anni pensavo che le mie poesie fossero belle. Continuai a scriverne quando avevo ventidue anni, ma a ventitré smisi. Credo che il mio strumento sia la narrazione. La mia prosa è in realtà poesia». [...]
Quali romanzi (di quale nazione) sono stati i più grandi romanzi del XIX secolo?
«Probabilmente quelli russi - ricordo più nomi russi che altri».
Quale peso bisogna dare alle critiche che appaiono sulla stampa?
«Le critiche sono strumenti del mestiere. Lo fanno per soldi. È meglio non fare troppa attenzione alle critiche sui giornali. Alcune valgono la pena di essere lette, ma sono poche».
Quali sono secondo lei i cinque più grandi scrittori contemporanei?
«1. Thomas Wolfe; 2. Dos Passos; 3. Hemingway; 4. Cather; 5. Steinbeck.
(A questa domanda uno degli insegnanti presenti in classe si girò e aggiunse, dopo che Faulkner ebbe finito la lista: «Mi dispiace che stiamo mettendo alla prova la modestia di Mr Faulkner». A quel punto Faulkner ripeté la lista in questo modo: «1. Thomas Wolfe – ha avuto un gran coraggio, scriveva come se gli restasse poco da vivere. – 2. William Faulkner. 3. Dos Passos. 4. Hemingway – non ha coraggio, non ha mai rischiato. Non ha mai usato una parola che il suo lettore dovesse andare a cercare sul vocabolario. 5. Steinbeck – una volta avevo grandi speranze per lui, adesso non so»).
La Stampa 15/6/2014