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 2014  giugno 15 Domenica calendario

IL PARADOSSO DI OBAMA


Barack Obama, guerriero quanto mai riluttante, ben difficilmente potrà eludere una decisione che va contro i suoi principi e le sue priorità politiche, e nelle prossime ore dovrà dare il via ad un nuovo impegno militare americano in Iraq.
L’avanzata verso Baghdad dei combattenti dello Stato Islamico in Iraq e Siria-Isis minaccia infatti la stessa sopravvivenza del governo iracheno e l’assetto dell’intera regione. Non è escluso infatti che, anche qualora Baghdad si rivelasse capace di resistere all’offensiva in corso, l’Isis riesca a consolidare un’area di controllo territoriale a cavallo fra Iraq e Siria.
Per Obama si tratta davvero di un paradosso, se non di una maledizione. Proprio lui, che nel 2003 si era opposto come Senatore all’attacco all’Iraq e che come Presidente aveva disposto il ritiro totale delle truppe americane, dovrà ora gestire un nuovo coinvolgimento militare in Iraq.
Non serve insistere, come ha fatto due giorni fa, sulla pur indiscutibile precisazione che nessun impegno militare potrà sostituire il compito, che spetta agli iracheni, di mettere in piedi un sistema politico sostenibile fatto d’inclusione di tutte le componenti, e non di settarismo. La minaccia è troppo globale, troppo imminente e - a parte la difficoltà di invertire la deriva settaria - è ovvio che i tempi della politica sono molto meno rapidi di quelli dello scontro armato.
E serve anche poco sottolineare che quello che si sta considerando non è un intervento terrestre (boots on the ground) ma soltanto l’impiego di mezzi aerei, sia pilotati sia non pilotati, i droni. Il mezzo aereo, come è del tutto chiaro alla luce delle recenti esperienze, non può sostituire, ma solo potenziare, la capacità militare dispiegata sul terreno. Gli americani sanno che da soli non riusciranno a fermare l’avanzata dell’Isis.
E allora, quali sono le prospettive? L’esercito iracheno sembra si stia sciogliendo come neve al sole, indebolito com’è da una combinazione di spaccatura settaria al suo interno, cattiva leadership militare, disaffezione nei confronti di un governo notoriamente corrotto, terrore nei confronti di un nemico motivato, spietato, apparentemente inarrestabile. La mobilitazione di volontari sciiti, in risposta all’appello dell’ascoltato capo religioso Sistani, potrà in parte supplire alla disastrosa mancanza di tenuta delle forze armate, ma certo non potrà bastare.
È qui che l’impensabile - un’alleanza di fatto fra Stati Uniti ed Iran - sta diventando pensabile, anzi probabile.
Iraniani e Americani concordano nel considerare le milizie dell’Isis come quanto di più minaccioso e destabilizzante esista nella inquietante galassia del radicalismo islamista. Fra l’altro, come denunciato dall’Alto Commissario per i Diritti Umani, il loro comportamento nelle aree sotto il loro controllo è caratterizzato da esecuzioni di civili spesso motivate dal fanatismo religioso, e non è esagerato temere che tra gli obiettivi della loro avanzata in Iraq vi sia anche quella di distruggere i principali santuari degli sciiti, da loro considerati non musulmani, e addirittura, a causa della loro venerazione delle figure di imam e santi, politeisti.
Il Presidente Rohani ha dichiarato che, «qualora gli Stati Uniti fossero disposti a contrastare i gruppi terroristi in Iraq e altrove», l’Iran sarebbe disposto a collaborare con Washington. Ha negato che vi siano in Iraq combattenti iraniani, ma è nota la presenza nel Paese, per ora in funzione di consiglieri ma domani anche di combattenti, dei Pasdaran, e in particolare della forza Al Qods, agli ordini di quel Generale Suleimani cui si attribuisce un ruolo centrale nell’organizzare e sostenere la capacità di resistenza del regime siriano.
Ma per l’Iran vi sono ragioni che militano a favore dell’ipotesi della apparentemente strana alleanza irano-americana anche al di là della questione irachena.
L’Iran non può accettare che Baghdad torni ad essere, come ai tempi di Saddam, una minaccia alla sua sicurezza, e certo non manca di notare che alcuni esponenti baathisti, fra cui anche collaboratori diretti di Saddam, sono oggi alleati dell’Isis. Ma un’alleanza con Washington risponderebbe anche a quello che è non da oggi l’obiettivo numero uno della politica estera di Teheran: ottenere il riconoscimento americano, e attraverso quello la normalizzazione dei suoi rapporti internazionali e l’accettazione dell’Iran (anche ai fini di un’integrazione nell’economia mondiale) come «Paese normale», riconosciuto soprattutto nel suo ruolo regionale.
Vi era proprio questo obiettivo di fondo, e non solo la profonda ostilità nei confronti dei taleban, dietro l’appoggio all’attacco americano all’Afghanistan del 2001.
Khatami, allora Presidente, puntava ad un «riconoscimento tramite inclusione», una strategia che è stata rilanciata dal Presidente Rohani. Questo fra l’altro grazie al ritorno in posizioni di responsabilità di diplomatici emarginati durante i due mandati di Ahmadinejad - un politico populista e provinciale che, pur perseguendo in realtà lo stesso obiettivo, lo faceva attraverso una controproducente ed assurda formula: riconoscimento tramite provocazione.
Tutto è a questo punto collegato, e la partita che si sta giocando in Iraq è destinata a pesare direttamente su ben altri fronti. La Siria, dove le già forti perplessità americane ad impegnarsi nel sostegno dell’opposizione armata ad Assad, dove ormai l’Isis è forza determinante e le forze combattenti moderate ne sono vittime piuttosto che concorrenti credibili, aumenterebbero nel caso di un attacco aereo alle milizie islamiste siro-irachene. Paradossalmente, gli americani si troverebbero così ad essere direttamente alleati degli iraniani, ma indirettamente anche di Assad.
E non va dimenticata la questione nucleare, finora problematico punto focale dei rapporti fra Washington e Teheran, su cui un impegno militare convergente per salvare il governo di Baghdad non potrebbe se non avere un impatto diretto.
Lo teme Israele, da dove stanno già provenendo ammonimenti a non sacrificare sull’altare dell’emergenza irachena la necessaria intransigenza negoziale. E certamente lo temono anche i Sauditi, e forse anche, nel «5+1», i Francesi, che sul tema nucleare iraniano si sono sempre distinti per la loro intransigenza.
Quello che è certo è che Obama si può scordare l’aspirazione a concentrarsi sui temi, a lui molto più familiari, della politica interna. L’uscita dall’unilateralismo militarista di George Bush si sta rivelando drammaticamente difficile.

Roberto Toscano, la Stampa 15/6/2014