Carlo Antonio Biscotto, Il Fatto Quotidiano 15/6/2014, 15 giugno 2014
SORELLE DI BOTTIGLIA LA PROSA ROSA IMBEVUTA DI ALCOOL
Dopo il successo di The trip to Echo Spring: on writers and drinking; why writers drink, Olivia Laing, pur senza scriverci un libro (per ora) ha deciso di dedicarsi alle scrittrici. La domanda che tutti le facevano era: e le scrittrici? Anche tra loro ci sono delle alcoliste? Sì, certamente. Un elenco? Ecco solamente le più famose: Jean Rhys, Jean Stafford, Marguerite Duras, Patricia Highsmith, Elizabeth Bishop, Jane Bowles, Anne Sexton, Carson McCullers, Dorothy Parker e Shirley Jackson. Mica male! C’è una buona parte del gotha della letteratura al femminile. Certo l’alcolismo prevale tra gli uomini, ma almeno nel mondo dell’arte, le donne se la cavano a meraviglia tanto che le scrittrici che hanno ceduto all’attrazione fatale della bottiglia spesso non sono riuscite a evitare il genere di guai dei loro colleghi maschi: le risse, gli arresti, la pubblicità negativa, il deterioramento delle loro vite private, la perdita degli amici. Jean Rhys ha conosciuto l’umiliazione della prigione. Elizabeth Bishop si era ridotta a bere acqua di Colonia. Ma la domanda più interessante è: le donne bevono per ragioni diverse? E come reagiva la società del XX° secolo, il secolo d’oro per il connubio letteratura-bottiglia?
A rispondere È una delle più grandi e amate scrittrici del secolo scorso, Marguerite Duras, nel suo La vita materiale dove spiega con spietata franchezza cosa significa essere scrittrice e donna. “Quando una donna beve – scrive la Duras – è come se bevessero un animale o un bambino. In una donna l’alcolismo è scandaloso, socialmente inaccettabile. È una offesa a Dio. Ogni volta che bevevo mi rendevo dolorosamente conto dello scandalo che creavo intorno a me”.
Marguerite Duras diceva sempre di essere stata alcolizzata sin dalla prima volta che aveva assaggiato l’alcol. Era riuscita a volte a smettere per anni, ma nei suoi momenti peggiori iniziava a bere appena alzata, faceva una pausa, vomitava i primi due bicchieri e prima di perdere i sensi era capace di scolarsi 8 bottiglie di Bordeaux. In una intervista rilasciata nel 1991 al New York Times disse con enorme coraggio: “Bevevo perché ero una alcolizzata. Ero una vera alcolizzata così come sono una vera scrittrice. Bevevo vino rosso per addormentarmi e cognac quando mi svegliavo. Ogni ora un bicchiere di vino e la mattina, dopo il caffè, mi attaccavo alla bottiglia di cognac. Poi cominciavo a scrivere. Mi stupisce che sia riuscita a scrivere... e nemmeno tanto male”. Marguerite Duras è stata una scrittrice non solo grandissima, ma estremamente prolifica. Quasi certamente avrebbe bevuto in ogni caso dopo una giovinezza segnata dalla paura, dalla violenza e dalla vergogna. Nata da genitori francesi, entrambi insegnanti nella Saigon sotto il dominio coloniale francese, perse il padre a sette anni e trascorse alcuni anni nella più assoluta povertà. A scuola ebbe una tempestosa relazione sessuale – forse incoraggiata dalla madre per ragioni economiche – con un cinese molto più grande di lei e di famiglia ricchissima. Tornata in Francia si sposò, ebbe un figlio da un altro uomo e visse sempre al limite conducendo quella che veniva definita una “esistenza scandalosa” . A 68 anni fu ricoverata in ospedale e le venne diagnosticata una grave forma di cirrosi epatica. Fu costretta a smettere tra inaudite sofferenze. Spesso la vena degli artisti si esaurisce quando si liberano da una dipendenza. Non fu così per la Duras che due anni dopo scrisse quello che da molti è considerato il suo capolavoro: “L’amante”. La vita delle scrittrici alcoliste è sempre segnata da infanzie e adolescenze difficili. Ne è un eccellente esempio Elizabeth Bishop. Molti suoi familiari, compreso suo padre, erano alcolizzati. Quando aveva 5anni e suo padre era già morto, la madre venne ricoverata in un istituto psichiatrico. Non la vide mai più. In una sua poesia tratteggia mirabilmente il ritratto ironico di una ubriacona attingendo a episodi della sua vita: “Avevo cominciato a bere e a bere; non ne avevo mai abbastanza”.
La chiave di volta dell’alcolismo di Patricia Highsmith è invece la vergogna. Nata nel 1921, nove giorni dopo che sua madre aveva deciso di divorziare da suo padre, non fu propriamente una bambina desiderata e amata. Al quarto mese di gravidanza la madre aveva tentato di abortire bevendo della trementina. I sentimenti di Patricia nei confronti della madre furono sempre tormentati e complessi. In compenso era coraggiosa, ma al tempo stesso ansiosa e facile alle lacrime, a volte lugubre. A otto anni fantasticava di assassinare il patrigno. Qualche anno dopo la madre la abbandonò senza una parola di spiegazione. Aveva cominciato a bere all’università, sostenendo nel suo diario che una artista aveva bisogno di bere “per vedere la verità, la semplicità e l’essenzialità delle emozioni”.
Ma la scrittrice che più di ogni altra esprime le pressioni sociali e le ipocrisie cui erano sottoposte le donne è senza dubbio Jean Rhys che scrisse delle donne cose talmente amare e crude da risultare “sgradevoli” ancora oggi. La Rhys era nata a Dominica nel 1890 da padre gallese e madre creola. Come Scott Fitzgerald era stata messa al mondo per sostituire la sorellina appena morta. E come Fitzgerald visse sempre senza sentirsi né voluta né amata. A 16 anni arrivò a Londra, povera e ignorante, e fu accolta dal freddo pungente e dalla crudeltà della gente. Ebbe una vita sciagurata di divorzi, aborti, lutti. L’alcol divenne presto il suo modo per affrontare le durezze della vita. Jean Rhys in un certo senso non si arrese mai al conformismo, alla cattiveria, all’insolenza. Continuò a bere fino alla morte e continuando a battersi per la libertà e l’autonomia divenne una femminista senza esserlo.
Carlo Antonio Biscotto, Il Fatto Quotidiano 15/6/2014