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 2014  giugno 15 Domenica calendario

ORFINI, L’ALTRO MATTEO CRESCIUTO A PANE, D’ALEMA E FGCI


L’altro Matteo alla testa del Pd è un frammento di vecchio Pci precipitato nell’universo renziano. Più che del Pci, anzi, il nuovo presidente del Partito democratico, Matteo Orfini, 40 anni il prossimo agosto, è figlio della Fgci, la Federazione giovanile comunista scioltasi nel 1992, quando lui aveva 18 anni. L’impronta originaria lo rende molto diverso dall’altro Matteo, cresciuto tra gli scout, la Ruota della fortuna e a un altro pc, il personal computer. Orfini consuma l’adolescenza al liceo Mamiani, nel quartiere Prati, scuola simbolo della sinistra romana. Di quel liceo, “immutabile nel tempo”, tiene vivo il ricordo della palestra “in cui si facevano le assemblee” e “le fontane in cui si buttavano i quartini”. L’ambientazione è quella della sinistra dotta e “illuminata”, tipica di certi film di maniera, presa in giro da Nanni Moretti. Di una sinistra cara a Massimo D’Alema di cui Orfini è stato segretario, a 24 anni, quando dirigeva, a due passi dal Mamiani, la sezione Ds di piazza Mazzini, tra la fine degli anni 90 e i primi Duemila. D’Alema era il prestigioso iscritto che “veniva ogni tanto con la moglie Linda alle iniziative di partito” e che il giovane segretario informava via email. Per D’Alema è la garanzia della continuità, non è un caso se lavorerà con lui alla Fondazione ItalianiEuropei, la prima ieri a fargli gli auguri e se, un po’ alla volta, quasi senza volerlo, del “lider maximo” assorbirà le movenze e il modo di parlare. Con qualche “diciamo” in meno ma con lo stesso amore per il ragionamento pacato, logico da “scuola quadri”.
Per Orfini, del resto, il partito è una cosa seria: “La sezione Mazzini ti incuteva un certo timore. Quando entrai nel direttivo ci misi una vita prima di fare un intervento. Per non parlare delle assemblee: di vite ce ne misi due”. In nome di quel partito, dicono le cronache, quando entrò in Parlamento, nel 2013, dopo aver vinto le primarie Pd per la Camera dei deputati, con 4900 preferenze, chiese per sé, senza ottenerlo, lo scranno che fu di Togliatti. E alla festa di Left Wing, la rivista di area, il gioco di società è stato quello di distribuire agli ospiti, ad esempio alla ministra Boschi, una maglietta con l’immagine del “Migliore”. In quell’ambiente, Matteo Orfini ha trovato il tempo per coltivare le cose normali: il subbuteo, di cui è un grande appassionato, come Enrico Letta, i Pink Floyd, e “la canzone più bella di sempre”, Confortably Numb, “seconda solo a Wish you were here”, la passione per la serie tv West Wing con tutta la sua “drammatica solitudine del politico” tollerabile solo per “l’impagabile consapevolezza che altri con te condividono un’idea, un progetto e un destino”. E poi l’amore e i suoi tormenti: “Penso di essere sostanzialmente un disturbato” scriveva a proposito della mancanza di rapporti a lungo termine. Tanto da esaltare Zygmunt Bauman e la sua idea di “amore fluido e di relazioni virtuali” dalle quali “si entra e si esce con facilità grazie alle tecnologie”. Un’ipotesi che Orfini, evidentemente in difficoltà, descrive come vicina “al riformismo” e che, forse, motiva la sua dedizione quotidiana per la palestra.
Nella Roma asettica del quartiere Prati c’è anche spazio per una passione milanista tanto furibonda da salutare la dipartita di Kakà dal Milan, nel 2009, con la struggente Ne me quitte pas (“Non mi lasciare”) di Jacques Brel.
Non riesce a coltivare fino in fondo, però, l’amore per l’archeologia, facoltà universitaria che a poco a poco abbandona nonostante avesse dichiarato che “non si deve fare politica tutta la vita”. Ha ancora tempo per dimostrarlo ma la presidenza del Pd non è certo un impegno transitorio. Se non ha fatto l’archeologo, comunque, è stato responsabile Cultura nella segreteria Bersani, ha fondato la rivista Left Wing, ha portato nella sua orbita una casa editrice, Editori internazionali riuniti (goffo tentativo di richiamare la storica casa del Pci) e ha poi fondato la corrente dei “Giovani turchi”, senza però scalzare nessun imperatore. Alcuni suoi vecchi compagni, come Stefano Fassina, ora prendono le distanze: “Non è un presidente super partes”. Brucia il voltafaccia di chi è passato da Cuperlo all’altro Matteo. Chissà se gli rinfacceranno quanto lui disse a Dario Franceschini quando abbandonò Bersani: “Siamo passati dalla rottamazione al riciclo”. Ma allora il Pd non era ancora al 40%.

Salvatore Cannavò, Il Fatto Quotidiano 15/6/2014