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 2014  giugno 14 Sabato calendario

DELL’UTRI, DA BEIRUT A TOTÒ RIINA


Beirut
Aeroporto Hariri di Beirut, venerdì 13 giugno, ore 3,45. Alle 4,25, orario di decollo dell’AZ827 terminerà la latitanza, a sua insaputa, dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, arrestato il 12 aprile nel lussuoso hotel Phoenicia. Le teste di cuoio della gendarmeria libanese lo hanno prelevato dall’ospedale privato Al Hayat dove era ricoverato, piantonato dal 16 di aprile, e consegnato agli agenti dell’Interpol arrivati ieri da Roma. Dell’Utri, giacca blu, polo azzurra, pantalone grigio scuro, percorre il lungo corridoio che porta al gate circondato dagli agenti con passo deciso. Niente manette ai polsi, ha raccomandato ai suoi uomini il direttore dell’Interpol, e massima protezione dai flash dei fotografi e dalle domande dei giornalisti. Il suo imbarco ha la priorità ma questa volta non perchè sia in possesso, come quando arrivò a Beirut via Parigi, per evitare il controllo passaporti italiano, di un biglietto business class costato 1.728 euro.
Seduto all’ultimo posto dall’oblò guarda per l’ultima volta, prima di varcare la soglia del carcere, il sole che sorge sulla terra dei cedri. Ci avviciniamo. Alza lo sguardo dal giornale che tiene aperto con le due mani. Partono i primi clic dai cellulari, seguono le domande: Ha paura del carcere? Come sta? La risposta seguita dal punto interrogativo, con quell’inflessione palermitana mai perduta, è fulminante: ma che cazzo siete venuti a fare? I poliziotti colgono l’irritazione. Lo invitano ad alzarsi, facendo scudo con il proprio corpo lo accompagnano oltre la tendina e lo fanno sedere sullo strapuntino dello stuart. Poco più avanti i figli, Marco, imprenditore nel campo delle slot machine con la sua società “Jackpot game”, felpa blu, cappuccio, occhiali da sole con lenti verdi a specchio, e Margherita, jeans bianchi, sciarpa di lino a mo’ di kefia.
Riprende a leggere Dell’Utri. “Come si sente?” “Stanco” risponde e “tradito” aggiunge sottovoce. Il riferimento - è dubbio - è all’amico di una vita, Silvio Berlusconi, per il quale tanto ha fatto fino a farsi mediatore con Cosa Nostra per garantirgli protezione e non solo, o al potente amico libanese, l’ex presidente Amin Gemayel, che gli aveva garantito la libertà e lo ha abbandonato? Margherita è visibilmente nervosa: si alza continuamente, passa davanti al padre, i loro sguardi si incrociano, lui le manda un bacio con le labbra. Avvicinare Dell’Utri per tutto il tempo del volo è impossibile. Alle 6,45, l’aereo atterra a Fiumicino. Veniamo invitati a scendere dalla porta anteriore.
A bordo pista arrivano le auto della polizia e gli agenti della Dia. Cerchiamo di restare a bordo per fotografarlo mentre scende dalla scaletta. “Su forza, andate via” ripetono gli agenti. Faccio notare che occorre rispetto anche per il nostro lavoro. La figlia che cerca di percorrere la fila all’indietro per raggiungere il padre ascolta e sbotta: “Proprio voi parlate di rispetto”. Il bus con i giornalisti paganti ai quali è vietato disturbare il condannato estradato se ne va.
Dell’Utri viene condotto nell’ufficio di polizia di frontiera dove gli agenti della Dia di Palermo, su delega della Procura Generale del capoluogo siciliano, gli notificano l’ordinanza di esecuzione per la carcerazione e - come predisposto dal procuratore Patronaggio - viene perquisito. Con se aveva circa 26mila euro, una chiavetta Usb, un’agenda, quattro cellulari, due blocchetti di assegni e due carte di credito. Quattro ore dopo è già sull’autoambulanza diretta al carcere di Parma, reparto ospedaliero specializzato anche per malattie cardiache. Lo stesso dove, ironia della sorte, proprio ieri è stato ricoverato quel Totò Riina che, per riguardo a Dell’Utri, rimosse dall’incarico di riscossore un boss invadente.
Ancor prima di capire da quale porta sarebbe stato fatto uscire, le telecamere avevano preso d’assalto un blindato della polizia penitenziaria davanti alle partenze nazionali scambiandolo per quello che avrebbe trasportato Dell’Utri. Il blindato, però, era lì per estradare un giovane bulgaro condannato per rapina. Manette ai polsi, le mani che a fatica sorreggono il bagaglio, un sacco di tela legato con la corda. Nessuno ci ha impedito di riprenderlo, lui non si chiama Dell’Utri. Morale: i giornalisti possono essere cani da guardia, a patto che la guardia non la facciano al potere che resiste persino alle condanne.

Sandra Amurri, Il Fatto Quotidiano 14/6/2014