Andrea Di Biase, MilanoFinanza 14/6/2014, 14 giugno 2014
LA MARATONA DI ALBERTO
Il libro di Giorgio La Malfa «Cuccia e il segreto di Mediobanca», benché non sia, a detta dell’autore, un lavoro sulla storia dell’istituto ma rappresenti invece un ritratto, in parte inedito, dell’uomo Enrico Cuccia, offre più di uno spunto non solo per ragionare su qual è stato il ruolo della banca d’affari nel capitalismo italiano del secondo dopoguerra ma anche per rileggere le vicende più recenti.
La domanda, cui in passato sono state date risposte contrastanti, è sempre la stessa: la Mediobanca di Cuccia e poi di Vincenzo Maranghi ha svolto appieno il compito che le era stato affidato ai tempi della sua fondazione, ovvero sostenere lo sviluppo delle grandi imprese italiane tutelandole dall’ingerenza del potere politico (obiettivo centrato secondo il giudizio di La Malfa)? Oppure ha travalicato questa missione, dando vita, attraverso la creazione di un sistema di partecipazioni incrociate legate tra loro da patti di sindacato, a un potere autoreferenziale e irresponsabile, che si è manifestato nella difesa delle grandi famiglie e in un atteggiamento sprezzante nei confronti dei diritti delle minoranze azionarie? La risposta a questa domanda spetta agli storici, ma poiché sono in molti a pensare che, al di là di alcuni meriti ampiamente riconosciuti, la vecchia Mediobanca abbia frenato lo sviluppo in Italia di un moderno mercato dei capitali, come si deve valutare l’operato di chi negli ultimi dieci anni ha avuto la responsabilità operativa della banca d’affari? In altre parole, l’attuale amministratore delegato dell’istituto Alberto Nagel si è mosso in discontinuità rispetto al passato oppure, di fronte a uno scenario dei mercati e regolamentare radicalmente mutato rispetto ai tempi dei predecessori, si è semplicemente limitato ad adattare la strategia della banca al nuovo contesto, mantenendo però gli antichi vizi attribuiti alla Mediobanca di Cuccia e Maranghi? Quest’ultima, ad esempio, è la posizione di molti dei critici dell’operazione Unipol-FonSai, a loro giudizio organizzata da Nagel al solo fine di tutelare il credito da 1 miliardo nei confronti dell’ex compagnia della famiglia Ligresti e in sfregio agli azionisti di minoranza delle società coinvolte.
Ma anche sul fronte del disboscamento del folto portafoglio di partecipazioni messo assieme da Mediobanca nel tempo da Cuccia e Maranghi c’è chi imputa all’attuale dirigenza dell’istituto di essersi mossa in ritardo e più per necessità che per convinzione. Se è infatti vero che quando, primavera 2003, Nagel (allora come direttore generale) ha assunto la guida operativa della banca è stato avviato un processo di alienazione di partecipazioni (3,3 miliardi tra il 2004 e il 2008, tra cui le quote in Fiat, Commerzbank, Mediolanum, Intesa e Ferrari) e una rifocalizzazione sulle attività di investment banking, è altrettanto vero che la svolta decisiva c’è stata solo negli ultimi tempi, quando la crisi dei mercati e le regole di Basilea 3 hanno reso non più conveniente per le banche mantenere partecipazioni immobilizzate in aziende. Basti pensare che nel 2009-2013 Mediobanca ha effettuato svalutazioni sul portafoglio equity per 1,63 miliardi, appena mitigate da utili e dividendi (554 milioni complessivamente) che quelle partecipazioni hanno fruttato. Insomma la filosofia alla base del piano che Nagel ha presentato lo scorso anno al mercato («una Mediobanca sempre più banca e sempre meno holding di partecipazioni») e che è stato una delle condizioni della fine dei patti di sindacato, nasce da qui o da una più profonda convinzione del management? Ognuno è libero di farsi una propria opinione in merito, ma non va trascurato che dal 2003, l’anno della cacciata di Maranghi dall’istituto, al 2010, quando Cesare Geronzi decise di lasciare la presidenza della banca d’affari per passare alle Generali, la governance di Mediobanca si è retta su un compromesso tra le prerogative del top management, cui era affidata la gestione operativa della banca, e quelle dei grandi azionisti, cui era stata data l’ultima parola sulle grandi questioni strategiche relative alle partecipazioni stabili, come Generali, Rcs e successivamente Telecom. Il patto di sindacato (in seguito rivisto e oggi in fase di ulteriore sburocratizzazione) prevedeva infatti che il cda fosse «competente in via esclusiva» e «senza facoltà di delega» a deliberare su «incrementi, riduzioni e dismissioni delle partecipazioni stabili». Dunque senza l’appoggio del consiglio, tenuto a deliberare con il voto favorevole dei due terzi, Nagel e i suoi collaboratori non erano in grado di prendere alcuna decisione significativa. Ma se questa era la costituzione formale della banca, quella informale si reggeva invece su un precario equilibrio tra le esigenze di quei soci, come Unicredit, favorevoli alle istanze di rinnovamento portate avanti dal management, e quegli azionisti, come Capitalia e alcuni privati come gli stessi Ligresti, più sensibili alle logiche del capitalismo di relazione e intenzionate a fare leva sulle partecipazioni di Mediobanca per consolidarsi nel sistema.
Non è un caso, dunque, che sia stato solo dopo il passaggio di Geronzi a Trieste e la sua successiva uscita anche dal vertice del Leone, che Nagel e il management di Mediobanca, che pure erano riusciti (fatta eccezione per l’affare Telco-Telecom) a tenere lontano l’istituto da operazioni «di sistema» come il salvataggio dell’Alitalia, sono riusciti ad avviare quel processo di scioglimento degli antichi legami partecipativi, di cui l’operazione Unipol-FonSai è stata una tappa fondamentale, come testimonia la progressiva uscita della nuova UnipolSai dal capitale di Generali, Gemina, Pirelli e della stessa Mediobanca. Una progressiva apertura degli assetti proprietari e della governance delle imprese quotate italiane, cui l’azione della banca d’affari milanese non è dunque estranea, che ha anche raccolto il plauso della stampa internazionale. Venerdì 14 l’Economist, che anche nel passato recente non aveva lesinato critiche ai Mediobanca, ha sottolineato con enfasi che nei primi nove mesi dell’esercizio 2013-14 l’istituto ha ceduto partecipazioni per 800 milioni, circa la metà di quanto previsto dal piano, dando un importante contributo allo scioglimento di quei legami azionari che avevano ingessato il capitalismo italiano. Dopo la disdetta, avvenuta lo scorso anno, del patto Rcs (da cui Mediobanca si avvia ad uscire progressivamente) nei prossimi giorni entrerà nel vivo anche lo scioglimento di Telco, il veicolo partecipato da Telefonica, Mediobanca, Intesa e Generali cui fa capo il pacchetto di maggioranza relativa di Telecom.
Nel medio termine, come previsto dal piano, Mediobanca rimarrà azionista rilevante di una sola società, le Generali, di cui però la banca d’affari alleggerirà la propria presenza portandola dal 13 al 10%. Una partecipazione sufficiente, secondo i critici, per continuare ad avere un’influenza decisiva sulle strategie del Leone, ma che in Mediobanca giustificano invece non tanto per ragioni di potere, considerate la presenza di altri soci forti capaci di bilanciare il peso della banca e la grande autonomia direzionale di cui dispone l’attuale ceo Mario Greco, ma quanto per la capacità della partecipazione di stabilizzare il bilancio dell’istituto molto più di qualsiasi altro investimento azionario o obbligazionario. Quale logica è destinata a prevalere lo si capirà meglio tra due anni, al momento del rinnovo del cda, quando il peso degli investitori istituzionali in assemblea potrebbe essere se non superiore, almeno pari, a quello di Mediobanca e degli altri soci forti che esprimono per tradizione la lista di maggioranza. Un altro retaggio del passato, un tempo celebrato con i rituali (e gli scontri) del comitato nomine, che potrebbe andare in soffitta, visto che in Piazzetta Cuccia si ritiene che la presenza del voto di lista sia una peculiarità italiana e comunque non abbia senso una contrapposizione fra liste di maggioranza e minoranza.
Andrea Di Biase, MilanoFinanza 14/6/2014