Gianandrea Gaiani, ItaliaOggi 14/6/2014, 14 giugno 2014
USA, POTENZA DESTABILIZZATRICE
Il quadro strategico non ha nulla di cui stupirsi e quanto sta accadendo a Baghdad (dove il panico dilaga, al punto che ieri in parlamento era presente meno di un terzo dei deputati, rendendo così impossibile persino decretare lo stato d’emergenza nazionale) è già accaduto a Saigon nel 1975 e accadrà probabilmente a Kabul nel 2017.
In Vietnam, gli statunitensi si ritirarono nel 1972 senza aver sconfitto il nemico così che le forze locali, guidate da un governo inetto e corrotto, sbandarono di fronte all’offensiva di primavera di vietcong e nordvietnamiti.
In Iraq gli Stati Uniti sono entrati nel 2003 mentendo sui legami tra Saddam Hussein e al-Qaeda ma non sulle armi di distruzione di massa del raìs che, nonostante la vulgata diffusa, vennero trasferite in Siria con aerei cargo e convogli pochi mesi prima dell’invasione anglo-americana. L’obiettivo di quella guerra era, nell’ottica dell’Amministrazione Bush, portare la democrazia nel paese mediorientale, dominato dal regime più abietto, per farla germogliare e diffondere come antidoto al terrorismo in tutto il mondo arabo e islamico. Obiettivo fallito, anche se le primavere arabe sono, in parte, una diretta conseguenza, almeno nello spirito libertario che le ha animate nella fase iniziale, di quella guerra. Il ritiro affrettato voluto da Barack Obama nel 2011 ha lasciato la guerra incompiuta: la democrazia irachena e le sue forze armate ancora troppo deboli e i qaedisti ancora troppo forti.
Come in Vietnam, gli Usa si sono ritirati prima di aver conseguito la vittoria, ma questa volta, forse, non solo per stanchezza. Non sfugge infatti che tutte le iniziative dell’Amministrazione Obama dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia all’Ucraina vengono definite fallimentari da molti analisti. Una valutazione corretta solo se si considera ancora l’America una potenza stabilizzatrice. Se invece valutiamo che oggi Washington non ha più bisogno del petrolio e del gas del Medio Oriente e che sta diventando non solo autosufficiente sul piano energetico ma addirittura il più grande esportare di energia del mondo, allora non possiamo non comprendere come il caos in questa regione rientri nei nuovi interessi statunitensi. Grazie a shale gas e shale oil gli Usa, non solo non hanno più interesse a stabilizzare le aree energetiche, o attraversate da oleodotti e gasdotti, ma hanno al contrario tutto l’interesse a portarvi caos e destabilizzazione, poiché queste regioni restano di primaria necessità per i rivali economici di Washington: Cina, Russia, Europa, India, Giappone_
In quest’ottica i «fallimenti» di Obama diventano importanti successi di un’America ormai divenuta potenza destabilizzatrice. Il ritiro dall’Iraq, il tergiversare sulla Siria e sul contrasto al programma nucleare iraniano, la guerra alla Libia di Muammar Gheddafi e persino il sostegno alla rivoluzione in un’Ucraina attraversata dai gasdotti hanno prodotto un unico risultato: rendere instabili e insicuri gli approvvigionamenti energetici mettendo in difficoltà tutte le potenze industriali e rendendo più appetibile il costoso gas americano, che per essere esportato via nave deve prima essere liquefatto e poi rigassificato a destinazione.
Per queste ragioni è inutile attendersi da Washington soluzioni alla crisi in Iraq che emerge oggi come pesante fardello per i paesi vicini, dalla Turchia all’Iran, alle monarchie del Golfo. Così come dopo il ritiro dall’Afghanistan la minaccia di talebani e qaedisti verrà «ereditata» da russi, cinesi, indiani e repubbliche ex sovietiche. Scenari drammatici a oriente ai quali l’Europa non potrà disinteressarsi e che si aggiungono a quelli altrettanto foschi in Nord Africa e Sahel e alla crisi insoluta in Ucraina.
Gianandrea Gaiani, ItaliaOggi 14/6/2014