l’Unità 15/6/2014, 15 giugno 2014
L’AFGHANISTAN SCEGLIE L’ERA POST-KARZAI
Sfuggito per un soffio all’attentato talebano in cui pochi giorni fa è rimasta uccisa una guardia del corpo, Abdullah Abdullah era dato per favorito nel ballottaggio con Ashraf Ghani per la scelta del nuovo capo di Stato afghano. Le elezioni si sono svolte ieri con un’affluenza fra il 52 e il 60% nonostante le violenze delle milizie integraliste, che hanno fatto almeno 46 morti e hanno impedito l’apertura di quasi 200 dei 6204 seggi.
Ci vorranno giorni, se non settimane per completare i conteggi e conoscere il nome del vincitore. Abdullah partiva avvantaggiato, avendo ottenuto al primo turno il 45% dei consensi contro il 31,6% del rivale. E tuttavia in un Paese in cui l’appartenenza etnica condiziona ancora fortemente le scelte politiche, la perfetta «pashtunità» di Ashraf Ghani potrebbe avergli consentito un forte recupero di consensi su Abdullah, che è per metà pashtun e per metà tagiko.
Chiunque prevalga, si troverà ad affrontare una situazione del tutto nuova. Se Hamid Karzai, nonostante il rapporto spesso conflittuale con gli alleati, ha governato per quasi tredici anni sotto l’ala protettiva delle truppe Nato e statunitensi in particolare, il suo successore dovrà fare conto soprattutto sulle proprie forze. Sia Abdullah Abdullah sia Ashraf Ghani hanno preannunciato l’intenzione di firmare raccordo bilaterale di cooperazione militare con Washington, in base al quale, a partire dall’anno prossimo in Afghanistan resteranno solo poche migliaia di marines, con il compito di proteggere l’ambasciata statunitense e addestrare le forze locali. Quanto alla sicurezza delle frontiere e del territorio e al contrasto della rivolta integralista, l’onere ricadrà prevalentemente sulle spalle dei soldati e agenti locali, anche se gli americani potrebbero ancora partecipare a singole operazioni anti-terrorismo.
Molti si aspettano che la smobilitazione del contingente internazionale offrirà ai seguaci del mullah Omar l’opportunità di intensificare l’offensiva armata. Non tutti gli osservatori ritengono però che il loro obiettivo sia la riconquista del potere e la reimposizione del regime teocratico rovesciato nel 2001 dall’attacco angloamericano. Una parte del movimento talebano sarebbe disposta a un’integrazione nell’attuale sistema istituzionale, e una dimostrazione di potenza militare servirebbe soprattutto a trattare da posizioni di forza. Per ora tutte queste sono semplici speculazioni. La realtà è che i tentativi negoziali avviati negli ultimi due anni fra Kabul e le rappresentanze talebane o fra queste ultime e gli americani non hanno dato frutti.
Assieme alle fragili condizioni di sicurezza, incombe sul nuovo esecutivo l’urgenza di affrontare enormi problemi economici, sociali e organizzativi che Karzai non ha saputo risolvere. Il budget statale è costituito quasi interamente dagli aiuti esterni, mentre la raccolta delle imposte è pressoché nulla. Oltre all’afflusso delle somme messe a disposizione dai donatori internazionali, la presenza militare straniera ha creato un indotto economico che verrà gradualmente a mancare. La piccola attività produttiva cresciuta a margine della missione internazionale verrà meno, e non esistono chiari progetti di sviluppo alternativi.
Per livello di corruzione l’Afghanistan occupa uno dei posti peggiori nelle classifiche internazionali, mentre il narcotraffico resta una delle principali risorse economiche. Nel 2013 la produzione di oppio è cresciuta del 50%, mentre le aree destinate alla coltivazione del papavero sono passate da 154mila a 209mila ettari. La produzione è concentrata in nove province, prime fra tutte Helmand e Kandahar, cioè quelle in cui il radicamento talebano è più saldo. Gran parte dei proventi di quel commercio serve a finanziare il movimento.
Sia Abdullah Abdullah che Ashraf Ghani hanno costruito la propria base di consensi attraverso alleanze con capi-clan e notabili regionali, senza storcere troppo il naso quando si trattava di assicurarsi il sostegno di ex-signori della guerra e personaggi con un pesante curriculum di violazioni dei diritti umani. Dalla parte di Abdullah si sono schierati ad esempio Gulbuddin Hekmatyar, Abu Sayyaf e Gul Agha Sherzai, leader della guerriglia antisovietica negli anni ottanta ma anche protagonisti delle violenze nella guerra civile della prima metà degli anni novanta. Quanto ad Ashraf Ghani si è procurato l’appoggio di Rashid Dostum, il ras uzbeko di Mazar-e-Sharif, specialista in acrobatiche giravolte politico-militari, avendo in tempi diversi messo i propri sgherri al servizio degli occupanti sovietici o dei loro nemici, degli «Studenti del Corano» e dei loro avversari. Difficile liberarsi dal peso di queste figure e delle loro clientele anche per chi, come l’ex-ministro degli Esteri Abdullah, può vantare la passata militanza nel movimento di liberazione guidato da Shah Massoud, o per chi, come Ashraf Ghani, ha lavorato a Washington per la Banca Mondiale, e tiene appeso accanto alla scrivania il diploma di antropologia conseguito all’Università americana di Beirut.