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 2014  giugno 16 Lunedì calendario

LE RAGIONI DELLA CAPORETTO IRACHENA


Alcuni ufficiali iracheni hanno spiegato il crollo così: «Bagdad ci ha ordinato via radio di abbandonare i mezzi e ripiegare». E loro hanno eseguito. Un ripiegamento che si è tramutato in diserzioni massicce — si è parlato di 90 mila uomini —, nella perdita di tonnellate di materiale e mezzi, in una fuga disordinata. A seguire le centinaia di soldati finiti nelle mani degli estremisti sunniti dell’Isis. Ci vorrà del tempo per capire se davvero c’è stato l’ordine dall’alto. Sui media arabi sono apparsi anche i nomi di tre generali, accusati di aver contribuito alla Caporetto irachena. Il primo è Alì Ghaidan, comandante delle forze terrestri. Il secondo Aboud Qandar, responsabile del coordinamento a Mosul. Infine il dirigente della terza divisione della polizia, Subahi al Gharoui. Oltre a gestire da incompetenti la situazione avrebbero fornito informazioni errate alla capitale impedendo una reazione rapida.
Fonti statunitensi hanno attribuito il disastro ad un branco di generali messi al vertice per grazia politica e pertanto infeudati al premier al Maliki. Il nepotismo applicato alle forze armate, insieme a carenze croniche, avrebbe portato alla sconfitta di un esercito poco abituato a manovrare e più propenso a difendere in modo statico. Dunque inadatto a contrastare il dinamismo dell’Isis. Al tempo stesso però è evidente che per Bagdad c’è la possibilità di affidarsi ad un apparato composto da reparti regolari integrati da miliziani sciiti di sicura fede, spesso gestiti dagli iraniani. Il massiccio reclutamento benedetto dall’ayatollah Sistani deve portare forze di manovra che agiscono agli ordini di fazioni ben sperimentate. Alcune di queste impiegate con grande successo nel conflitto in Siria. Un dispositivo che somiglia poco all’esercito regolare di uno Stato ma piuttosto ad una milizia settaria.