Pietro Citati, Corriere della Sera 15/6/2014, 15 giugno 2014
QUEI CINQUANTATRÉ GIORNI DI INDEMONIATA DETTATURA
Henri Beyle terminò la Vita di Henry Brulard nel marzo 1836, raccontando il suo primo arrivo a Milano nella primavera del 1800, a diciassette anni. Era una giornata di maggio. Entrò a cavallo nel magnifico cortile della Casa d’Adda, ammirando tutte le cose. Salì per uno scalone superbo: era la prima volta che l’architettura produceva il suo effetto su di lui. Presto gli portarono delle eccellenti cotolette impanate, che per molti anni gli ricordarono Milano. «Dalla fine di maggio al mese di ottobre o di novembre, conobbi un intervallo di felicità celeste, folle e completa».
Il 4 novembre 1838, trentotto anni dopo, Stendhal era a Parigi, nella sua abitazione di Rue Caumartin 8, dove cominciò a dettare La Certosa di Parma ad August Dupont. Non sopportava i progetti, i piani, le lente, sistematiche, faticose costruzioni: progettare un romanzo — diceva — gli «ghiacciava l’ispirazione». Dettare, invece, faceva emergere l’immensa fluidità orale della scrittura: gli dava estro, velocità, felicità, leggerezza, quell’allegro , in cui vedeva l’unico tono possibile della letteratura.
Non aveva mai raggiunto la velocità che lo rinchiuse in una stanza dal 4 novembre 1838 alla mattina del 26 dicembre 1838. Cinquantatré giorni di indemoniata dettatura: settecentoventi pagine stese dal suo abile e intelligente copista, che corrispondono a quattrocentocinquantotto fittissime pagine della recente edizione della Pléiade. Nemmeno Dickens e Dostoevskij conobbero un ritmo così veloce e regolare: pagina 177, il 10 novembre 1838; pagina 270, il 15 novembre; pagina 310, il 17 novembre; pagina 640, il 2 dicembre; pagina 720, il 26 dicembre mattina, quando mezza giornata era ancora meravigliosamente vuota. Il ritmo della dettatura rallentò lentamente appena negli ultimi giorni: ma il 26 dicembre aveva davanti a sé «6 enormous cahiers»; e nel febbraio del 1841, ancora accecato e inebriato dall’inaspettata felicità del libro, disse che era molto più lieto di aver scritto quel «romanzetto» piuttosto che di aver posseduto tre donne. L’eros era diventato inchiostro. Aveva raggiunto la perfezione del romanzo: la stessa conosciuta dal suo modello, l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.
Quando cominciò a dettare La Certosa di Parma , Stendhal raccontò l’arrivo dei francesi a Milano, che aveva già narrato nelle ultime righe della Vita di Henry Brulard . Spostò la data a qualche anno prima, il 15 maggio 1798. Allora il generale Bonaparte fece la sua entrata a Milano alla testa della giovane armata che aveva passato il ponte di Lodi, insegnando che dopo tanti secoli Alessandro e Cesare avevano un successore. Quei soldati erano giovanissimi: avevano meno di venticinque anni, e il loro generale in capo, che ne aveva ventisette, passava per essere l’uomo più vecchio del suo esercito.
Avevano uniformi stracciate: scarpe rotte: razioni magre: pochissimi soldi; ma portavano con sé «una massa di felicità e di piacere», gioia folle, voluttà, oblio di tutti i sentimenti passati. Ridevano, ballavano e cantavano tutto il giorno: erano immersi completamente nel momento presente, senza nemmeno un pensiero o una sensazione che oltrepassasse quel momento. Cullavano i bambini piccoli dei milanesi: la popolazione era innamorata pazza di loro, e dimenticava di colpo la noia e la tristezza in cui aveva vissuto per quasi due secoli, al tempo della taciturna e sospettosa dominazione spagnola. La Certosa di Parma comincia così, con questo tono scintillante, con questo suono di trombe e trombette leggere e gioiose, gettando un ponte verso le ultime felicissime parole del libro.
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Poche pagine dopo, il romanzo conosce un secondo inizio, con l’episodio dedicato alle Alpi e ai due rami del Lago di Como. Ecco un Largo sublime, degno del sublime dello pseudo-Longino: esso costituisce uno dei brani metafisici della Certosa , e insieme il cuore del libro, che illumina da lontano. «Tutto vi è nobile e tenero, tutto parla di amore, niente richiama la bruttezza della civiltà». Le acque e il cielo sono di una tranquillità profonda: il silenzio universale è turbato soltanto, a intervalli eguali, dalle piccole onde del lago che vengono a spegnersi sulla riva, come nelle Fantasticherie del passeggiatore solitario di Rousseau. Dovunque è solitudine. Oltre le amabili e varie colline, l’occhio stupito scorge le vette delle Alpi, sempre coperte di neve: esse sono disegnate sull’azzurro chiaro di un cielo sempre puro; la loro austerità severa ricorda le sventure della vita, necessarie per accrescere la voluttà del presente. L’immaginazione è commossa dal suono lontano delle campane dei villaggi, che addolcisce le acque con una tinta di malinconia e di rassegnazione.
Il Lago di Como, le Alpi, le colline, le onde del lago, i suoni delle campane corrispondono perfettamente alla pittura che Stendhal prediligeva: quella lombarda ed emiliana del sedicesimo secolo, Leonardo e i suoi seguaci, Correggio e Parmigianino. Questa pittura ha il volto leonardesco e correggesco di Gina del Dongo, sposata in prime nozze col generale napoleonico Pietranera. Gina è bellissima: a Milano, fertile di bellezze, è la più bella donna di tutte; la Merlino, la Gherardi, la Ruga, la Aresi, la Pietragrua, racconta Stendhal, intrecciando il nome di donne che egli stesso aveva conosciuto e amato.
Gina del Dongo è sovranamente leggera, in tutti i sensi della parola: abita senza prudenza nel momento presente, come consigliano le campane del Lago di Como. Non sopporta la noia: può vivere soltanto se diverte e se fa divertire, se è felice e rende felici gli altri. È lieta, spiritosa, impertinente: obbedisce alla propria volontà e al proprio capriccio. Tutte le sere ascolta l’opera alla Scala: rientrata a casa, improvvisa sul piano fino alle tre di notte; è una grande attrice spesso involontaria, nella vita come nelle scene di un’immaginaria commedia dell’arte. Tutti la amano, dal principe di Parma al generale di Napoleone, ai nobili filo-austriaci, ai rivoluzionari, ai primi ministri, ai suoi servitori, che, quando sposa il duca di Sanseverina-Taxis, gridano «viva la signora duchessa». Lei appare dalla porta, fa una piccola reverenza e dice: «Amici miei, vi ringrazio».
Tutti adorano Gina Sanseverina, meno l’unica persona che lei ama, Fabrizio del Dongo. Essa lo ama con il solo amore che Stendhal apprezza: l’amour-passion : «Il vero amore, l’amore che occupa tutta l’anima, la riempie di immagini ora felicissime, ora disperanti, ma sempre sublimi, e la rende completamente insensibile a tutto il resto di quello che esiste». Non basta: Gina adora Fabrizio, che è suo nipote, di amore incestuoso. Talvolta non se ne rende conto: ma, a tratti, capisce che il suo affetto è avvolto dalla tremenda nube dell’incesto. «Appena chiusa nella sua camera, scoppiò in lacrime; trovò qualcosa di orribile nell’idea di fare l’amore con quel Fabrizio che aveva visto nascere; eppure che cosa d’altro voleva dire il suo comportamento?».
Chi sia Fabrizio del Dongo, che Stendhal chiama affettuosamente «il mio eroe», non è facile dire. Tra i lettori e i critici, egli è circondato da un’immensa fama, in realtà immeritata. Sebbene Stendhal lo ami, non gli riconosce il minimo genio: l’intelligenza di Fabrizio è mediocre, la cultura quasi nulla, il libertinaggio meccanico, la passione religiosa convenzionale, tranne nell’ultima parte del libro. Possiede la bellezza, la grazia di Cherubino, il colore bianco e rosa del viso, l’indolenza del gran signore, che conosce e coltiva sé stesso. Come dice il canonico Borda: «Questo giovane Fabrizio è pieno di grazie, è grande, ben fatto, ha un volto sempre ridente... e, meglio ancora, un certo sguardo colmo di dolce voluttà... è una fisionomia alla Correggio». Abbiamo ascoltato la parola definitiva, Correggio. Quasi tutti i personaggi della Certosa amano alla follia Fabrizio: astrologi e arcivescovi, principesse, principi e ministri formano attorno a lui un tenero e soave alone di luce; il suo personaggio non è mai visto direttamente, ma attraverso gli sguardi e le impressioni degli altri.
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La Certosa si svolge a Parma; e avrebbe potuto svolgersi in qualsiasi piccola capitale reazionaria del periodo della Restaurazione. Con grande grazia Stendhal fa sfilare i minimi eventi davanti ai nostri occhi: il sovrano Ranuccio Ernesto IV non è privo di spirito, sebbene muoia di paura al pensiero di possibili attentati: i capi del partito conservatore e di quello progressista cambiano con grande velocità i ruoli e le parti. L’unico personaggio politico affascinante è il conte Mosca, ministro della Guerra, della Polizia e delle Finanze. Non ha il genio di Metternich, come scrisse Balzac, ma è spiritosissimo, intelligente, paradossale, disilluso; ed è pazzamente innamorato della duchessa Sanseverina.
Il conte Mosca è un sottile pensatore politico. Ricordo soltanto due frasi, che trovo impareggiabili: «Sappiate, mio principe — dice al sovrano di Parma —, che aver ricevuto il potere dalla Provvidenza non basta più in questo secolo, ci vuole molto spirito e un grande carattere per riuscire ad essere despota». La seconda frase, dice Philippe Berthier, curatore della Certosa nell’edizione della Pléiade: «La politica non è una lotta del bene contro il male, ma una scelta tra il preferibile e il detestabile». Come Mosca, Stendhal disprezza la moderna democrazia americana: essa è volgare e soprattutto noiosa — il regno del danaro e dei droghieri. E pensa che «in un’opera letteraria, la politica è un colpo di pistola in mezzo a un concerto». Stendhal non ha nessuna voglia di sciupare con un colpo di pistola il suo libro più bello: quel gioco incantevole di amore, felicità, teatro, morte. E sa benissimo che la corte di Parma, malgrado il conte Mosca e la duchessa Sanseverina, è greve e tediosa: grondante di quell’insopportabile noia che si respira nella provincia moderna, anche in quella italiana, per la quale egli ha una predilezione. Ma pensa che la monarchia abbia un certo privilegio. A corte, persino in quella di Parma, ci si diverte. Si fa teatro, si recita la commedia dell’arte, si pronunciano battute, si combinano intrighi, si intrecciano amori: come fra l’affascinante Gina Sanseverina e lo spiritosissimo conte Mosca, felice della tenera amicizia che la duchessa nutre per lui. Stendhal collabora con i suoi personaggi, perché trasforma la materia politica della Certosa in un’incantevole opera buffa, che lo fa ridere e quindi suscita la sua commozione.
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La prima parte della Certosa si raccoglie attorno a un luogo mirabile, il Lago di Como: nella seconda si erge un luogo non meno meraviglioso, la cittadella-prigione di Parma, che Proust adorava. La grande torre di Parma, edificata sul modello di Castel Sant’Angelo a Roma, raggiunge centottanta piedi d’altezza: sulla spianata che termina la torre, è stato costruito un palazzo per il governatore della cittadella e una nuova prigione chiamata torre Farnese. La si vede da molto lontano; e dalla torre si scorge l’immensa estensione verdeggiante della pianura padana, il Po, il Parma, le lontane vette coperte di neve, dalle Dolomiti alle montagne piemontesi, che lasciano cadere un velo di freschezza sulle campagne più aride. Ogni spettatore è stupito e commosso da questo spettacolo sublime; e i lettori ritrovano una rete di simboli. La prigione è il cuore del sistema politico di Ranuccio Ernesto IV: il segno dell’elevazione spirituale che ci porta dalla terra alle stelle; ed è l’amore che Fabrizio del Dongo conosce per la prima volta negli occhi di Clelia, figlia del generale Conti, governatore della cittadella.
Fabrizio del Dongo non aveva mai conosciuto l’amore: solo qualche avventura libertina con domestiche, attrici, e mature e noiose aristocratiche. Verso la zia, provava un’amicizia tenerissima. «Che sarebbe di me, gran Dio, se litigassi col solo essere al mondo per cui abbia un legame appassionato? L’amicizia intima di una donna così amabile e così graziosa e così dolce! Questa serata così gaia, così tenera, passata quasi testa a testa con una donna così attraente...». Si interrogava: frugava nei sentimenti che provava per lei: alla fine, dopo giorni e giorni di analisi, si convinse che, se egli non amava la duchessa, era perché la sua natura era radicalmente incapace di amore.
A causa di uno sciocco delitto, Fabrizio venne condannato dal principe di Parma a dodici anni di fortezza. Quando venne portato nella cittadella, il generale Conti e la figlia Clelia stavano per uscire. Clelia lo guardò: nei suoi occhi c’era pietà, indignazione e collera: aveva molto più fuoco e passione che la duchessa; e di colpo un amore tragico, che ricordava quello delle tragedie di Corneille e di Racine, si impadronì di Fabrizio. «”È possibile che sia la prigione?”, egli disse, guardando l’immenso orizzonte. ”Capisco che Clielia Conti ami questa solitudine aerea: qui si è a mille leghe al di sopra delle piccolezze e delle malvagità che ci occupano sulla terra. Vedrò Clelia?”, continuò guardando gli uccelli della voliera che occupava la stanza di lei».
Alla fine, dopo un’attesa lunghissima, con l’inesprimibile gioia di Fabrizio, verso mezzogiorno Clelia venne a trovare i suoi uccelli. Fabrizio rimase senza respiro. Osservò che Clelia non levava gli occhi verso di lui: i suoi movimenti avevano l’aria impacciata di chi si sente osservata. Poi abbassò gli occhi: mangiava molto lentamente; e salutò il prigioniero con il movimento più grave e più distante. I suoi occhi espressero per un istante la pietà più viva: un rossore le coprì il volto e le spalle. Quando Clelia uscì, Fabrizio restò immobile a guardare la porta dalla quale era scomparsa. «Se riesco soltanto a vederla, si disse, sono felice. No, aggiunse: bisogna anche che lei veda che io la vedo!».
Clelia appariva alla finestra ogni giorno allo stesso momento; e Fabrizio comprese che voleva vederlo, essere vista, e parlare con lui. Passarono i giorni: i due comunicavano dalle finestre, con arti e astuzie su cui Stendhal getta un’affettuosa luce ironica. La conversazione tra i due diventò intima e gaia. Fabrizio le disse: «Una volta di ritorno a Parma, come vi vedrò? La vita mi sarebbe insopportabile se non potessi dirvi tutto quello che penso. Vivere senza vedervi tutti i giorni è per me un supplizio molto più grande della prigione». Il suo amore era profondo e timoroso, intinto di quella fosca tinta tragica che emanava dalla figura di Clelia; e pieno di una strana paura. Mentre la duchessa Sanseverina preparava la fuga di Fabrizio dalla cittadella, egli non voleva lasciare la prigione, dove la felicità riempiva ogni minuto del suo tempo. Senza Clelia, la sua vita era un esilio.
Tutte le mattine Clelia guardava dolcemente Fabrizio dalla finestra. Quando si diffuse la voce che egli era stato avvelenato, si precipitò nella stanza di lui, pensando: «Vado a salvare mio marito». Fabrizio la strinse tra le braccia e la coprì di baci, in un movimento compulsivo. Clelia era così bella, così appassionata, e Fabrizio non potè resistere a un movimento quasi involontario. «Nessuna resistenza fu opposta», scrive Stendhal con uno dei suoi mirabili scorci. Ma Clelia promise alla Madonna e al padre di non parlare più con Fabrizio e accettò di sposare il ricchissimo marchese Crescenzi. Come prigione, scelse il palazzo Crescenzi: non scendeva mai in giardino, né gettava uno sguardo dalla finestra.
Dopo il matrimonio di Clelia, Fabrizio lasciò la prigione, e venne nominato vicario dall’arcivescovo. Ma si votò al silenzio più completo, sognando di indossare le vesti del certosino. Era magrissimo, pallido, consumato: gli occhi ingranditi avevano l’aria di uscirgli dalla testa; aveva un’aria quasi miserabile col suo liso abito nero. Pensò che, ormai, aveva perduto Clelia; e la disperazione si impadronì di lui. Ogni giorno predicava in chiesa: moltissimi lo ascoltavano; c’era nei suoi discorsi un tono di tristezza profonda, immagini fantastiche e ardite, momenti di ispirazione appassionata, una vocazione da tenore, un’eloquenza religiosa che conquistava i cuori delle donne. Quando piangeva, nell’uditorio si innalzava un singhiozzo generale. Clelia andò ad ascoltarlo: si convinse che egli parlava soltanto per lei; e si commosse terribilmente davanti a quella strana mescolanza di bellezza, malinconia e devozione.
Clelia pensò che abbandonando Fabrizio aveva commesso un delitto atroce; e lo invitò, a mezzanotte, nel palazzo Crescenzi. Quando Fabrizio oltrepassò la porta, una voce bassa gli disse: «Entrate qui, amico del mio cuore», con una di quelle frasi che Stendhal diceva di trarre dal Correggio. Una mano passò attraverso le grate, prese la sua mano e gli diede un bacio. «Sono io, disse la voce amata. Sono venuta qui per dirti che ti amo e per domandarti se mi vuoi obbedire. Ho fatto voto alla Madonna, come sai — continuò — di non vederti mai; e per questo ti ricevo in questa oscurità profonda. Se mi costringessi a guardarti in pieno giorno, tutto sarebbe finito tra noi». Con un rapidissimo tocco, Stendhal fa scendere sulla scena il ricordo di un grande mito: Clelia è la nuova Psiche, Fabrizio il nuovo Eros, che come nelle Metamorfosi di Apuleio, viene avvolto da un’inviolabile tenebra.
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Siamo nelle ultimissime pagine della Certosa : gli eventi precipitano velocemente. Sandrino, figlio di Fabrizio e di Clelia, muore dopo una breve malattia: Clelia immagina di essere colpita da una giusta punizione, perché è stata infedele al suo voto alla Madonna; sopravvive qualche mese al figlio, e ha la dolcezza di morire tra le braccia dell’amico. Fabrizio spera di ritrovare Clelia in un altro mondo: si ritira nella Certosa di Parma, nei boschi vicini al Po; tutti i giorni va a trovare la zia nel suo palazzo di Vignano. La contessa sembra riunire tutte le apparenze della felicità: ma sopravvive poco tempo a Fabrizio, che passa soltanto un anno alla Certosa. Questa rapidità vertiginosa è forse dovuta alla volontà dell’editore, che voleva chiudere in due volumi la folta massa narrativa della Certosa . Ma non ha molta importanza. Stendhal possiede il dono straordinario di far propria qualsiasi esigenza editoriale, trasformando le richieste esterne in meravigliose omissioni: l’arte che egli prediligeva.
Infine, tre righe. «Le prigioni di Parma erano vuote, il conte immensamente ricco, Ernesto V adorato dai suoi soggetti che paragonavano il suo governo a quello dei granduchi di Toscana. TO THE HAPPY FEW».
Stendhal aveva in mente la prima pagina della Certosa , con le gaie trombette, che annunciavano la felicità del giovane esercito francese e di Milano. Giunto all’ultima pagina, insensibile a qualsiasi verosimiglianza, conclude il suo libro con i suoni vasti e chiari che anticipano la felicità del futuro, la luce dell’utopia, l’amore dei felici pochi.