Paolo Valentino, Corriere della Sera 15/6/2014, 15 giugno 2014
«OBAMA HA POCHE OPZIONI: È NECESSARIA UN’INTESA CON L’IRAN»
DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA — «La crisi in Iraq può rivelarsi come la prova generale della futura collaborazione tra Stati Uniti e Iran nel Grande Medio Oriente, dove i due Paesi hanno molti interessi convergenti. Ma la precondizione di questo riavvicinamento strategico è la conclusione di un accordo sul nucleare iraniano nella trattativa 5+1 e credo che non siamo lontani da questo esito».
Richard Burt è una leggenda della diplomazia americana. Grande mente strategica, famoso per la sua eleganza, seduttore impenitente, l’ex giornalista del New York Times non aveva neppure 40 anni nel 1985, quando Ronald Reagan lo nominò ambasciatore in Germania Ovest, in uno dei momenti più difficili della Guerra Fredda. Il suo capolavoro diplomatico fu la trattativa con i sovietici sulla riduzione dei missili strategici a Ginevra, dove nel 1989 George Bush padre lo volle capo dei negoziatori americani: fu lui a concludere il primo accordo Start nel 1991. Oggi, a 67 anni, Burt guida la McLarthy Associates, una delle più importanti società di consulenza strategica di Washington. Lo incontriamo a Venezia, dove ha partecipato all’annuale workshop del Consiglio per le relazioni tra Italia e Usa.
Quali sfide pone all’Amministrazione la crisi irachena?
«Occorre distinguere tra quelle di politica estera e quelle di politica tout court. Cominciando dalle seconde, il presidente è stato troppo passivo e riluttante a esercitare la leadership americana. La crisi in Iraq lo mette bene in risalto: l’americano medio guarda e non capisce a cosa siano serviti gli enormi sacrifici fatti in oltre un decennio, quasi mille miliardi di dollari spesi, più di 4 mila morti. Il pubblico si chiede come sia possibile che tutto crolli e cosa stia facendo il presidente. Eppure tutto questo è in netto contrasto con il nodo di politica estera posto dalla crisi: l’intervento in Iraq fu un errore, non ci fu una valutazione approfondita di tutte le sue implicazioni e conseguenze, in primis il fatto che avrebbe liberato tutto il potenziale di violenza settaria della società irachena divisa tra sciiti e sunniti. Così Obama da un lato riconosce che gli Stati Uniti possono fare veramente poco per influenzare la situazione a meno di un nuovo e massiccio coinvolgimento, che il popolo americano non vuole. Allo stesso tempo ha il problema politico di non esser visto come spettatore passivo, che assiste al definitivo collasso del Paese».
E cosa farà secondo lei?
«Poco, appunto. Non invierà truppe ovviamente. Forse, se Bagdad si troverà in pericolo, ci sarà qualche forma di sostegno aereo a difesa della città».
E qui entra in gioco l’Iran, che ha già unità scelte sul terreno a sostegno dello sciita Maliki, l’alleato degli Stati Uniti. Un interessante paradosso…
«Lo abbiamo visto già in passato ed è un esempio della divisione che esiste oggi tra la politica e la strategia americana. L’Iran è dinamite politica negli Usa. Anche grazie ai molti sostenitori di Israele, il regime di Teheran è stato demonizzato. Un errore grave. Perché gli iraniani non saranno perfetti, ma sono da tempo pronti a cooperare con gli Usa: le ricordo che dopo l’11 settembre e l’intervento degli Stati Uniti in Afghanistan, iraniani e americani lavorarono insieme dietro le quinte per ricostituire un governo a Kabul, stabilizzare il Paese e marginalizzare i talebani. Oggi Usa e Iran hanno un interesse comune a tenere in piedi il governo di Maliki».
Giovedì scorso lei ha visto a Roma una delegazione di Teheran, in margine ai colloqui con i russi. Che impressione ne ha avuto?
«Sono moderatamente ottimista sulla possibilità di arrivare a un’intesa complessiva sul nucleare entro il 20 luglio. Certo, ci sono decisioni difficili da prendere sia a Washington che a Teheran. Ma siamo a un punto dove le parti capiscono le rispettive posizioni e sono pronte a un compromesso sui temi più controversi. Non c’è molto tempo, le dinamiche politiche nei due Paesi renderebbero un’intesa molto più complicata nei prossimi mesi. Un accordo sarebbe il singolo e più importante successo di politica estera di Obama. Se Teheran lanciasse un segnale concreto di disponibilità, il presidente sarebbe pronto a chiudere. E forse l’escalation in Iraq può facilitarlo, perché riapre nella percezione dell’opinione pubblica un capitolo non piacevole della vicenda americana all’estero».