Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 15 Domenica calendario

QUEL SOGNO MAI REALIZZATO DELL’ENA ITALIANA E I TANTI MURI DA ABBATTERE


ROMA – «È come un vogatore da appartamento. Quando lo usi è utilissimo, ma quando non ci fai nulla non sai dove metterlo». È la definizione più feroce della mitica Ena, che ha sfornato fra l’altro qualche illustre primo ministro, tipo Dominique de Villepin. Autore della formidabile metafora che voleva dire quanto la gloriosa scuola degli alti burocrati francesi fosse diventata negli anni pachidermica, è uno che ci ha studiato: Arnaud Teyssier, ispettore generale dell’amministrazione parigina. Ma almeno di quegli ingombranti vogatori i francesi ne hanno uno soltanto. Noi, a dozzine, disseminati per l’Italia. E niente a che vedere con quello dei francesi.
Da anni e anni si diceva che dovevamo fare come loro. Quando qualcuno prefigurava la creazione di un’Ena italiana, a chiunque lo ascoltasse brillavano gli occhi. Ma restavano sempre parole. Al massimo, idee appena abbozzate, come quella a cui si era messo a lavorare l’ex presidente della Camera Luciano Violante con la sua fondazione Italiadecide. Troppe le gelosie e le invidie, troppi gli interessi in gioco. Un esempio? Prima di andarsene, il governo di Mario Monti aveva impostato una riforma che doveva essere incentrata sulla nascente Sna, Scuola nazionale di amministrazione. Riformicchia, più che riforma vera e propria. Infatti si è poi risolta nel semplice cambiamento di nome della Sspa, la tradizionale Scuola superiore della pubblica amministrazione. Tutto qui.
Con una beffa concomitante. Lo stesso giorno in cui il governo approvava la riforma, uno dei suoi ministri, quello dell’Interno Annamaria Cancellieri, firmava un accordo che riconosceva all’Associazione dei Comuni e all’Unione delle Province un finanziamento di 10 milioni per un programma di formazione dei segretari comunali e provinciali. Il tutto nonostante il ministero dell’Interno abbia già una propria Scuola superiore dell’amministrazione locale dal costo di 11 milioni 649 mila euro. Accadeva non un secolo fa: il 21 marzo 2013. Con le Province già destinate alla soppressione. E con quei dieci milioni da aggiungere alla massa già imponente di denaro che si spende per addestrare caoticamente i nostri dirigenti pubblici. Nel 2013 le cinque scuole principali dell’amministrazione centrale sono costate 51 milioni e 620 mila euro. Somma, alla faccia di tagli e spending review, superiore del 13 per cento a quella spesa nel 2012. La sola Scuola superiore della pubblica amministrazione, ora Sna, pesa sull’Erario per 13 milioni l’anno. Forse anche perché ha ben 5 sedi: e pur con tutta la buona volontà non si riesce a comprendere la logica che ha ispirato chi le ha scelte. Oltre a quella di Roma, c’è Bologna, Reggio Calabria, la Reggia di Caserta e Acireale, in Provincia di Catania. Assurdo. Infatti la riforma approvata venerdì dal consiglio dei ministri prevede non soltanto che le 5 scuole principali (la Sna, la Scuola dell’amministrazione locale, la Scuola di economia e finanza, nonché le scuole dei prefetti e dei diplomatici) vengano fuse in una sola, con dipartimenti diversi a seconda delle specializzazioni. Ma pure che tutto sia in un’unica sede .
Dovrebbe finire anche un certo uso a dir poco singolare di certi incarichi di docenza: finalizzati a retribuire profumatamente taluni burocrati, più che all’insegnamento. Un’operazione per la verità già avviata dall’ex direttore della Scuola di economia e finanza Giuseppe Pisauro, da pochi giorni presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, con la creazione di un «ruolo ad esaurimento» per professori ordinari. Nel quale figurano i nomi del direttore generale della Consob Gaetano Caputi, dell’ex capo di gabinetto dell’Economia Vincenzo Fortunato, ora presidente del fondo immobiliare pubblico Invimit e liquidatore della Stretto di Messina, degli ex parlamentari Maurizio Leo ed Ernesto Stajano, nonché dell’ex strettissimo collaboratore di Giulio Tremonti: Marco Milanese, recentemente sospeso da Pisauro in attesa che si chiarisca la sua situazione giudiziaria. Ma a metà stipendio, come prevede la legge. Che significa 97.166 euro lordi.
Per fare l’Ena italiana, va detto, non basta certo la fusione di cinque scuole. E neppure l’obbligo per i dirigenti pubblici, previsto nella legge delega, di dedicarsi gratuitamente per un paio di giorni l’anno ad insegnare ai loro colleghi più giovani. Ci vuole ben altro, che purtroppo faticheremo non poco a mettere insieme. Cominciando dall’idea della burocrazia come servizio, e non come ostacolo, ai cittadini. Senza contare che oltre a quelle 5 scuole ci sono poi gli apparati formativi della Polizia, della Guarda di Finanza e dei Carabinieri. E che oggi praticamente ogni Regione ha una propria scuola per la dirigenza. Finanziata e gestita autonomamente: con programmi e metodi ovviamente differenti. La Lombardia ha una propria «Scuola superiore di alta amministrazione». La Sicilia, il Cerisdi. La Toscana, la Scuola di governo. L’Umbria, la Scuola umbra di amministrazione pubblica…