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 2014  giugno 16 Lunedì calendario

DAL NOSTRO INVIATO MOSUL —

Decine di giovani uomini, tanti in civile, vengono spinti a pedate, botte con i calci dei fucili e minacce sui cassoni aperti di almeno due camion. Teste incassate nel collo, macchie di sudore sulle magliette impolverate, lampi di puro terrore agli occhi. I miliziani sunniti sono quasi tutti vestiti in nero, tengono i Kalashnikov puntati ai loro petti. Mentre in sottofondo si odono gli inni della guerra santa, la seconda scena già preannuncia l’epilogo: i prigionieri sdraiati pancia in giù, mani legate dietro la schiena, in una buca scavata superficialmente. Infine gli spari, una vera esecuzione di massa, e i loro cadaveri, con il sangue che fuoriesce da testa e collo ad arrossare la terra. Gli esecutori urlano «Allah è il più grande» e promettono di liberare «tutto l’Iraq dai cani sciiti».
È questo l’ultimo delle centinaia di video diffusi negli ultimi giorni dal variegato universo della guerriglia sunnita, e specialmente dai militanti dello «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante», deciso a scalzare una volta per tutte il governo del premier sciita Nouri al Maliki. A loro dire i prigionieri fucilati in massa sono soldati governativi catturati nella caserma di Tikrit quando già avevano gettato le uniformi e cercavano la fuga. Tanto lascia credere sia l’ennesima testimonianza concreta delle brutalità su larga scala di cui è puntellata la guerra totale tra comunità sciita e sunnita. In verità c’è poco di nuovo. La «sfida dei video» caratterizza ormai da oltre tre anni lo scontro molto simile che insanguina la Siria. Ne abbiamo visti di ogni genere. Soldati di Bashar Assad che urinano sorridenti sulle teste di ribelli sunniti emergenti dalla terra appena prima di venire sepolti vivi a Hama. Oppure feriti dati alle fiamme, tagli di teste in puro stile afghano. E a loro volta militanti islamici di Aleppo che picchiano e torturano a morte lealisti appena catturati. In Iraq il fenomeno ha fatto capolino in maggio, quando elementi delle squadre speciali mandati da Maliki a pattugliare Mosul hanno diffuso i video ripresi dai loro telefonini mentre ai posti di blocco picchiavano e umiliavano civili sunniti. La novità dell’ultima settimana caratterizzata dalla stupefacente avanzata sunnita nel Nord e verso Bagdad sta però nel numero crescente di video dell’orrore. Un’arma di elementare propaganda psicologica a colpi di Facebook, YouTube e Twitter usata a piene mani dagli islamici volta a scoraggiare, spaventare e infine spingere il nemico alla fuga.
«Posso testimoniare che quei video funzionano. Sono stati uno dei motivi che hanno convinto a disertare me e tanti miei compagni. Ci dicevamo che non volevamo fare quella fine terrificante e a tutte le ore aprivamo Internet per vederne di nuovi», ci ha raccontato ieri il generale Mahdi Mohammad, 35 anni, alto ufficiale del Secondo Battaglione Carristi «Bagdad», di stanza a Bustania. «Io sono un soldato di professione, amo il mio Paese e sono pronto a difenderlo, ma sono anche un sunnita curdo. Purtroppo il governo Maliki negli anni aveva marginalizzato quelli come me a favore degli sciiti. Ultimamente eravamo rimasti solo 40 sunniti nel mio battaglione di oltre 700 uomini. E praticamente tutti ce ne siamo andati. Ho detto ai miei vecchi commilitoni sciiti che ormai io con questa guerra settaria non avevo nulla a che fare. Sono stati loro stessi a consigliarmi di partire. Alla fine mi sarei trovato a dover uccidere cittadini sunniti con il sostegno dell’Iran. Adesso sono tornato nella mia casa di Kirkuk e mi sono unito ai peshmerga inquadrati nelle forze militari nell’enclave curda». Parole che spiegano da sole i motivi che hanno spinto Maliki a ordinare il blocco totale di Internet e dei social media nelle zone del Paese ancora sotto suo controllo (circa la metà dell’intero territorio nazionale). Ieri a Mosul abbiamo potuto verificare che Internet era assente e la rete telefonica funzionava ad intermittenza. Censurati dal governo inoltre centinaia di video sui tre siti tradizionalmente utilizzati dagli islamici («Rojgull» e «Knnc» in arabo, «Postcurd» in curdo).
Pure, i combattimenti continuano. A Mosul gli elicotteri governativi ieri sono stati accolti a colpi di contraerea. Corre voce che in città sia apparsa tra le milizie sunnite anche Raghad Hussein, la figlia 46enne di Saddam Hussein, da tempo protetta dal governo giordano, diventata una delle icone del vecchio regime baathista e dal 2007 ricercata dalle autorità irachene con l’accusa di sostenere la guerriglia. Più volte ha fatto sapere di volere pubblicare «le memorie di mio padre». Nel Nord combattimenti gravi stanno avendo luogo nella cittadina a popolazione mista di Tel Afar. Secondo i comandi governativi, circa 300 «terroristi» sarebbero stati uccisi nelle ultime 24 ore. Maliki sta inviando i nuovi battaglioni di volontari sciiti a Samarra, un centinaio di chilometri da Bagdad, e da qui punta a lanciare l’offensiva per la riconquista del Nordovest. Pure, anche questa «linea nella sabbia» è già stata superata. La notizia della serata è infatti che le avanguardie sunnite hanno espugnato la guarnigione lealista di Baquba, 50 chilometri più avanti. La chiusura dell’aeroporto internazionale nella capitale si fa adesso una realtà molto possibile. In centro città una serie di esplosioni ha causato 15 morti e 30 feriti.
Lorenzo Cremonesi

GUIDO OLIMPIO
Alcuni ufficiali iracheni hanno spiegato il crollo così: «Bagdad ci ha ordinato via radio di abbandonare i mezzi e ripiegare». E loro hanno eseguito. Un ripiegamento che si è tramutato in diserzioni massicce — si è parlato di 90 mila uomini —, nella perdita di tonnellate di materiale e mezzi, in una fuga disordinata. A seguire le centinaia di soldati finiti nelle mani degli estremisti sunniti dell’Isis. Ci vorrà del tempo per capire se davvero c’è stato l’ordine dall’alto. Sui media arabi sono apparsi anche i nomi di tre generali, accusati di aver contribuito alla Caporetto irachena. Il primo è Alì Ghaidan, comandante delle forze terrestri. Il secondo Aboud Qandar, responsabile del coordinamento a Mosul. Infine il dirigente della terza divisione della polizia, Subahi al Gharoui. Oltre a gestire da incompetenti la situazione avrebbero fornito informazioni errate alla capitale impedendo una reazione rapida.
Fonti statunitensi hanno attribuito il disastro ad un branco di generali messi al vertice per grazia politica e pertanto infeudati al premier al Maliki. Il nepotismo applicato alle forze armate, insieme a carenze croniche, avrebbe portato alla sconfitta di un esercito poco abituato a manovrare e più propenso a difendere in modo statico. Dunque inadatto a contrastare il dinamismo dell’Isis. Al tempo stesso però è evidente che per Bagdad c’è la possibilità di affidarsi ad un apparato composto da reparti regolari integrati da miliziani sciiti di sicura fede, spesso gestiti dagli iraniani. Il massiccio reclutamento benedetto dall’ayatollah Sistani deve portare forze di manovra che agiscono agli ordini di fazioni ben sperimentate. Alcune di queste impiegate con grande successo nel conflitto in Siria. Un dispositivo che somiglia poco all’esercito regolare di uno Stato ma piuttosto ad una milizia settaria.

PEZZO DI REPUBBLICA
TIM ARANGO, KAREEM FAHIM E BEN HUBBARDJUNE
ERBIL
Quando i militanti islamici sono entrati a Mosul la settimana scorsa e hanno rapinato le banche di centinaia di milioni di dollari, aperto i cancelli delle prigioni e bruciato i mezzi militari, una parte della popolazione li ha accolti come liberatori, con tanto di lancio di pietre ai soldati iracheni in ritirata. Ma sono bastati due giorni ai combattenti dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria per imporre le dure norme della legge islamica in base alla quale intendono governare e per procedere a esecuzioni sommarie di agenti di polizia e operatori governativi. Il blitz ad opera di poche migliaia di combattenti spintisi fino a Mosul e più a Sud sembra aver colto di sorpresa i militari iracheni e americani, ma si tratta in realtà dell’esito
di un strategia di statebuilding
che il gruppo porta avanti da anni senza farne alcun mistero, anzi, promuovendola pubblicamente.
«Oggi in Iraq assistiamo alla realizzazione degli obiettivi che l’Isi si è posta dalla sua fondazione, nel 2006», spiega Brian Fishman,
esperto di antiterrorismo della New America Foundation. L’organismo di cui parla, lo Stato Islamico dell’Iraq, è il predecessore dell’attuale Isis. Il gruppo estremista sunnita si è prefisso di ritagliarsi un califfato, cioè uno stato religioso islamico, che comprenda le regioni irachene e siriane a maggioranza sunnita, documentando ampiamente i progressi realizzati e addirittura pubblicando rapporti annuali sull’avanzamento della strategia.
Sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi, in passato prigioniero in una struttura di detenzione americana, il gruppo si è dimostrato violento e risoluto nel perseguire i propri obiettivi religiosi, ma anche pragmatico nello stringere alleanze e nel conquistare e cedere territori. È del 2007 un opuscolo che espone la visione del gruppo per il futuro dell’Iraq. La religione ha la precedenza sull’amministrazione e uno dei principali compiti dei militanti
è liberare i sunniti dalle
prigioni.
Ai tempi della guerra settaria iniziata nel 2006, i jihadisti si inimicarono la cittadinanza con i loro tentativi di imporre la legge islamica e subirono una serie di sconfitte per mano dei combattenti tribali aderenti alla campagna americana di controinsurrezione, che li costrinsero a ritirarsi
dall’Iraq occidentale alle regioni attorno a Mosul. Ma con lo scoppio della guerra civile oltreconfine in Siria tre anni fa, il gruppo individuò nuove opportunità di crescita. Lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria «ha invaso la Siria da Mosul ben prima di invadere Mosul dalla Siria», dice Fishman.
Il gruppo si è rafforzato in Siria grazie a una doppia strategia che
prevede da un lato attacchi con l’obiettivo di conquistare risorse come depositi di armi, pozzi di petrolio e granai, evitando dall’altro gli scontri prolungati con le forze governative che hanno polverizzato gli altri ribelli siriani. In Iraq, la resistenza del governo è crollata in molte zone conquistate. A sorpresa, come nel blitz su Mosul, il gruppo ha consolidato il
proprio controllo su Raqqa, in Siria, da più di un anno e su Falluja, nell’Iraq occidentale, da sei mesi.
Nei primi mesi dell’anno Al Qaeda ha ripudiato il gruppo, dopo che il leader dell’organizzazione, Ayman al Zawahiri, ne aveva ordinato il ritiro in Iraq per lasciare le operazioni in Siria all’organizzazione locale affiliata ad Al Qaeda, il Fronte Nusra. La frattura ha portato a un’aspra rivalità tra i due gruppi e lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria è entrato in competizione con Al Qaeda per le risorse e per un ruolo preminente nella più ampia comunità jihadista internazionale.
Illuminante per comprendere l’idea che il gruppo ha di se è un video promozionale pubblicato recentemente dal titolo “Il suono delle sciabole”. Vengono mostrati combattenti barbuti, armati, provenienti da tutto il mondo arabo che ripudiano il loro paese d’origine strappando i passaporti, oppure in preghiera nelle moschee o manifestanti la propria fedeltà a Baghdadi. In altre scene si vedono i combattenti che sparano contro presunti appartenenti all’esercito iracheno, li inseguono per i campi, li catturano
e quindi li giustiziano.
Il gruppo porta avanti strategie diverse calibrate per la Siria e per l’Iraq. In Siria si è concentrato soprattutto sulla conquista di territori già strappati al governo ma scarsamente controllati da altri gruppi ribelli. In Iraq ha sfruttato la delusione diffusa tra i sunniti rispetto al governo di Al Maliki, per allearsi con altri gruppi militanti sunniti, come un’organizzazione guidata da ex funzionari del partito baahtista di Saddam Hussein.
Benché molti di questi gruppi, inclusi i baahtisti ed altre milizie tribali si siano apparentemente unite all’Isis per combattere il comune nemico, l’organizzazione e le risorse del gruppo potrebbero invogliarle a stringere un’alleanza più duratura, rendendo ancor più arduo per il governo di Maliki
ristabilire il controllo.

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WASHINGTON - Gli Stati Uniti si stanno preparando ad aprire un dialogo diretto con l’avversario di sempre, l’Iran, sulla sicurezza in Iraq e su un possibile intervento militare congiunto per respingere i militanti sunniti che hanno preso possesso di vaste aree del paese e stanno ora puntando sulla capitale, Bagdad. Lo riferisce il Wall Street Journal.

Citando alti funzionari americani, il giornale ha specificato che gli incontri sono previsti per questa settimana.

I militanti dello Stato Islamico dell’Iraq e il gruppo Levante hanno invaso le città della valle del Tigri a nord di Baghdad nei giorni scorsi, ma sembra abbiano fermato la loro avanzata nei pressi della capitale.

Funzionari Usa hanno precisato di non sapere quale canale diplomatico l’amministrazione Obama potrebbe utilizzare per discutere di Iraq con l’Iran. Una possibilità era attraverso Vienna, scrive il Wall Street Journal, dove sono state programmati incontri tra alti funzionari americani e iraniani e di altre potenze mondiali per negoziare i limiti dello sviluppo nucleare di Teheran.

Il Dipartimento di Stato ha confermato che il numero due del corpo diplomatico del governo, il vice segretario di Stato Bill Burns, si recherà a Vienna questa settimana per prendere parte ai colloqui.

Il senatore statunitense Lindsey Graham aveva rivelato, ieri, che Washington aveva bisogno del coinvolgimento dell’Iran per evitare un collasso del governo in Iraq e per questo era necessario avviare i colloqui con Teheran. "Stiamo probabilmente andando a cercare il loro aiuto per tenere Baghdad,"ha detto il senatore repubblicano del South Carolina alla CBS.

Intanto, il personale "non indispensabile" dell’ambasciata americana a Bagdad è stato fatto rientrare in patria, mentre le misure di sicurezza sono state fortemente intensificate.