Vittorio Zucconi, la Repubblica 15/6/2014, 15 giugno 2014
VITTORIO ZUCCONI
LA SIGNORA ALZÒ LO SGUARDO DAL PIATTO DI VERZA E MAIALE E
sorrise timida, come i pazienti in ospedale sorridono ai medici, all’uomo accanto al letto. Come si chiama, signora: «Auguste». È sposata? «Non so». Come si chiama suo marito? «Auguste». Che cosa sta mangiando? «Patate e spinaci». Oh mio Dio, mormorò l’uomo accanto al letto.
Nel suo camice bianco, gli occhiali pince-nez stretti sul naso sopra gli obbligatori baffoni alla Kaiser Wilhelm, annotava furiosamente scuotendo la testa incredulo. Auguste Deter, la signora, lo guardava domandandosi chi fosse quel distinto uomo rotondetto, insistente e noioso che in quei giorni del 1901 la tormentava con domande impossibili in una corsia dell’ospedale psichiatrico di Francoforte. Lei non sapeva, povera donna confusa, che il nome di quel medico sarebbe riecheggiato da allora come il rintocco di
una condanna spietata: Alzheimer. Doktor Aloysius “Alois” Alzheimer.
Auguste Deter, anni cinquantuno, sposata con un ferroviere dell’Assia, sarebbe stata la “paziente zero” della sindrome di Alzheimer, la prima persona ufficialmente diagnosticata con quel male e con il nome di uno, ma non il solo, psichiatra o neurologo che l’avesse identificata come una patologia diversa dalla demenza senile. Nell’istituto cittadino per disturbi mentali e nervosi di Francoforte, dal nome teutonicamente inquietante di Städtische Heilanstalt für Irre und Epileptische, dove il marito disperato l’aveva condotta per mano, nessuno dei medici aveva mai visto un caso simile. Una donna ancora giovane, incapace di identificare e ricordare che cosa stesse mangiando, che alla richiesta di scrivere “donna” scriveva “penna”, e che vagava per ore nei corridoi del lugubre asilo aggrappata a una coperta. Fu il luminare e barone delle ancora giovani specialità di psichiatria e neurologia, il professore, naturalmente tedesco, Emil Kraepelin, a battezzare in una relazione a un congresso del 1906 con il nome di Alzheimer quella condizione che il giovane collega aveva studiato con intensità maniacale, fumando casse di sigari, e illustrato in un agile trattatello di ben sette volumi. Alois avrebbe riconosciuto segni visibili di degenerazione nel cervello di Auguste, esaminato e frugato al microscopio per giorni e mesi dopo la sua morte con le nuove tecniche di contrasto all’argento.
Molti altri, fra i quali due psichiatri italiani, erano arrivati vicini alla stessa conclusione, che quella manifestata dalla signora fosse una sindrome fino ad allora non identificata. Ma fu il nome di Alzheimer a restare per sempre.
E a diventare, tragica ironia, indimenticabile. Era nato esattamente un secolo e mezzo fa, Alzheimer, il 14 giugno del 1864, in un villaggio della Baviera chiamato Marktbreit. A ventitré anni appena, Aloysius, figlio di piccoli commercianti, aveva già frequentato alcune delle più auguste università della neonata Germania unificata, Berlino, Tubinga, Würzburg, e acquisito un dottorato in medicina con un’ampia dissertazione sul cerume dell’orecchio, porticina laterale che lo aveva condotto alla sua passione: il cervello. Ma con un comandamento spirituale e privato inculcato dalla madre, quando gli aveva detto: è dovere dei più forti assistere e aiutare i più deboli.
Nessuno come quella povera donna, Auguste, dovette apparirgli più debole, più bisognosa di un aiuto che lui, lo scienziato, lo studioso, il medico illustre, non poteva dare. Fu per lui il primo incontro con questo male di speciale, unica efferatezza, nella sua diabolica abilità di distruggere la sostanza e l’anima della personalità umana: la memoria. Non fu neppure casuale che ilpaziente zero fosse stata una paziente, perché il male colpisce più femmine che maschi, e affligge le donne due volte, una prima come malate e una seconda come assistenti delle vittime, visto che, almeno negli Stati Uniti ma verosimilmente in tutti i circa cinquanta milioni di casi registrati nel mondo, sono per due terzi donne coloro che si prendono cura del malato. In istituti, nelle propria case, in ville sontuose, come
quella “mansion” di Bel Air, sulle colline di Los Angeles, dove Nancy Reagan accompagnò il marito perquindici anni nel viaggio verso la notte, fra l’addio alla Casa Bianca nel 1989 e la scomparsa nel 2004.
Come accadde nella vicenda dell’Aids, divenuto un incubo globale quando cominciarono a soccomberne celebrità, così sono stati i famosi a costruire per il grande pubblico le dimensioni strazianti della sindrome. Reagan, che ne mostrava i sintomi ancora in carica, s’incantava per ore a rigirarsi fra le dita un modellino della Casa Bianca confessando alla moglie di non riuscire a ricordare che cosa fosse quell’edificio dove aveva trascorso otto anni. Mentre nella notte, sorvegliato dagli agenti del Servizio segreto preoccupati che non piombasse nella piscina, rastrellava in vestaglia e pigiama le
foglie secche dal grande giardino. Alzheimer non ha risparmiato le bellissime, come Rita Hayworth. I duri con il fucile in pugno, come Charlton Heston. Gli attori celebri come Peter Falk, che verso la fine della propria vita confessò di non ricordare chi fosse quel fottuto Tenente Colombo del quale sentiva tanto parlare.
Costa duecentoventi miliardi di dollari all’anno, secondo l’Associazione Alzheimer, soltanto negli Stati Uniti, facendone, insieme con l’autismo, una delle condizioni patologiche più costose e destinate ad aumentare il proprio peso con l’invecchiamento della popolazione. Senza per ora prospettiva di terapie efficaci, nonostante alcuni nuovi farmaci di modesto effetto ritardante. E anche se proprio in questi giorni grandi università negli Usa, in Canada e Australia stanno reclutando volontari
per sperimentare una molecola che, ipoteticamente, avrebbe potere preventivo.
Non mancano neppure gli autori che denunciano l’inevitabile complotto medico-farmaceutico, arrivando a parlare del Mito dell’Alzheimer come un libro che ha fatto immediatamente polemica. C’è chi rimprovera alla cultura medica ufficiale di volere a ogni costo definire come una patologia l’inevitabile invecchiamento anche del cervello, dimenticando il monito di Terenzio Afro, che avvertiva, diciassette secoli or sono, che senectus ipsa est morbus , la vecchiaia è di per sé una malattia. Ma chi vive ogni giorno la realtà, poco si cura delle inevitabili diatribe attorno a una condizione ancora senza una causa determinata e una spiegazione riconosciuta. E nella nebbia delle ipotesi, nell’impotenza della medicina, nello struggimento di chi
deve amare e assistere coloro che vede scivolare via dalle mani verso il vuoto come nei sogni brutti, la paura scatenata dal nome del dottore con i baffi da Kaiser si gonfia. «Attenti — avverte uno specialista americano — non cadete nel panico. Dimenticare il nome di un amico è senilità, dimenticare il nome del marito è Alzheimer». Come lo dimenticava Auguste, aggrappata alla sua coperta.
Herr Doktor Aloysius “Alois” Alzheimer non conobbe il morso del male al quale aveva dato il proprio none. Morì per una setticemia fulminante, accasciandosi mentre viaggiava in treno verso i suoi microscopi che imbrattava con le cenere del sigaro eternamente fra le labbra. Aveva cinquantuno anni. La stessa età della signora che lo guardava senza ricordare.