Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 14 Sabato calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - GLI STATALI E LA RAMAZZA DI RENZI


REPUBBLICA.IT
ROMA - La Cgil boccia la riforma della pubblica amministrazione approvata dal consiglio dei Ministri. E lo fa con il suo segretario generale Susanna Camusso che dice: "Avremmo voluto dal governo una maggiore dose di coraggio nell’affrontare il tema del riordino della pubblica amministrazione". Secondo la Cgil: "Si era e si continua ancora a parlare di una riforma per i cittadini ma nel decreto legge non si intravvede alcuna misura che possa favorire realmente il rapporto tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni".
Secondo la Confederazione guidato da Susanna Camusso "non vi sono norme che semplifichino effettivamente l’accesso ai servizi pubblici e riducano il carico burocratico per i fruitori delle pubbliche amministrazioni. Andrà valutato se invece qualche beneficio sia stato previsto per le sole imprese".
Per la Cgil, "se questo è il provvedimento non vi può che essere delusione e sconcerto per una riforma annunciata come epocale, ma che vedrà forse la sua attuazione in un tempo più lungo, quando si chiarirà quali siano le linee che il governo vorrà assumere, visto che il disegno di legge con il quale si dovrebbe procedere alla riorganizzazione è una sorta di delega in bianco".
Insomma "la riorganizzazione ancora una volta viene annunciata, ma viene rinviata ad un tempo futuro e a contenuti che si capiranno in seguito".
Ma il ministro risponde a stretto giro di posta e non fa sconti. "Proponiamo - dice Marianna Madia - un grande progetto di cambiamento. Al sindacato dico che non è responsabile fare opposizione perché rispondiamo a una richiesta sociale".

PEZZI DI STAMATTINA DEL CORRIERE
SERGIO RIZZO
Un uomo forzuto schiacciato da un pesante macigno che gli piega le spalle e una scritta intorno: “Licenziare dipendenti pubblici”. Avendo forse fiutato l’aria l’imprenditore veneto Sante Carraro, fiancheggiatore dei Forconi, era già pronto con il suo partito per le elezioni europee. Mandare a casa metà degli statali, colpevoli di succhiare il sangue al resto degli italiani: un programma semplice e diretto. Che non ha lasciato traccia. Forse perché quando si tratta di passare dalle parole ai fatti la prospettiva è leggermente diversa.
Le parole, appunto. In teoria, per esempio, i dipendenti pubblici possono essere anche mandati a casa: le regole sulla mobilità da qualche anno si applicano anche a loro. Ma solo in teoria: se nemmeno l’omicidio è causa per il licenziamento, figuriamoci l’esubero. La prova? Gli agenti di polizia condannati in via definitiva per la morte dello studente ferrarese Federico Aldrovandi, una volta scontata la blandissima pena inflitta dal tribunale, sono stati regolarmente reintegrati. Con tanto di standing ovation tributata loro dal colleghi del sindacato Sap. «Un disonore per migliaia di divise», ha fatto mettere a verbale il premier Matteo Renzi. Ma di più non ha potuto.
La verità è che nessun politico, almeno prima d’ora, ha mai seriamente pensato di poter licenziare i dipendenti pubblici. Del resto, non ci si inimica certo a cuor leggero tre milioni e mezzo di elettori e le rispettiva famiglie. A destra come a sinistra. Perfino il governo Renzi, che ha appena sfornato la più dura riforma della pubblica amministrazione dal secondo dopoguerra, annunciando la sepoltura delle Province si è premurato di tranquillizzare: «Nessuno perderà il posto».
Per non parlare dei sindacati. L’ultima volta che ha sentito pronunciare la frase «licenziamenti nel pubblico impiego», Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, è esplosa: «Vogliono incendiare la prateria».
Comprensibile, forse. Ma solo ed esclusivamente per carità umana. Prendete il caso di Francesco De Lorenzo, ex ministro della Sanità condannato per Tangentopoli. Professore universitario a Napoli, viene sospeso quando cominciano i suoi guai giudiziari. Quindi reintegrato e poi nuovamente sospeso quando la condanna diventa definitiva. Scontata la pena, ecco schiudersi di nuovo le porte dell’Università. A un giornale che raccontava questa storia abbastanza singolare di inamovibilità perpetua, De Lorenzo mandò una lettera dove c’era scritto: «Gli autori ignorano la legge con la quale si chiarisce che se il reato non è commesso nell’esercizio della propria funzione, non c’è automatismo che si riverberi nelle decisioni di carattere disciplinare». Dunque il professore che ruba, ma non all’università, può continuare tranquillamente a insegnare: abbiamo capito bene?
Sembra incredibile, ma è così. Un dipendente del comune di Milano che si occupava di riscossione fu condannato nel 2001 per un grave reato patrimoniale. Nel frattempo, però, era diventato insegnante in una scuola pubblica: che non potè prendere nei suoi confronti alcun provvedimento, dato che «l’episodio risale a un’epoca in cui il soggetto non aveva alcun rapporto con l’amministrazione scolastica». E lo Stato ha continuato a pagargli lo stipendio.
Succede ai professori, ma succede anche ai bidelli. Le cronache sono piene, ahimè, di storie di collaboratori scolastici denunciati e condannati che poi tornano a lavorare. Magari non nella stessa scuola, ma in quella accanto. Il 3 aprile scorso un tribunale ha stabilito che un bidello riconosciuto colpevole di aver molestato una ragazzina di 13 anni «non potrà più lavorare a scuola». Significa che lo ritroveremo in qualche altro ufficio.
In un’inchiesta pubblicata qualche anno fa da «Panorama», Roberto Ormanni raccontava che nei ministeri risultavano in servizio 194 persone che avevano subito condanne definitive per gravi reati contro la pubblica amministrazione, come truffa, corruzione e peculato. Come mai? Perché le condanne blande provocano al massimo una sospensione di settimane o mesi. Poi tutto ritorna come prima. E se ha ragione il magistrato di Mani Pulite Pier Camillo Davigo, secondo cui il 98 per cento dei condannati se la cava con meno di due anni… Non è poi che vada molto meglio nelle amministrazioni locali. Sapete quanti hanno perso il posto delle centinaia dipendenti del Comune di Napoli che nel 2006 vennero pizzicati a gonfiarsi gli stipendi autocertificando di dover mantenere stuoli di parenti? Uno soltanto. Uno su 321.
Frequentissimi, inoltre, sono i casi di licenziamenti che si risolvono con una riassunzione. Per avere conferma, chiedere al geometra licenziato dall’Aler di Milano per tangenti e riassunto poco dopo dall’Aler di Brescia. Oppure al finanziere scoperto dai poliziotti mentre, in borghese, si faceva una canna. Cacciato dal corpo, è stato reintegrato dal Tar. La motivazione? Era vittima «di fumo passivo».

OCCUPAZIONE
Stop al «trattenimento»
Chi ha l’età lascia il posto
I 15 mila posti che il governo conta di liberare nella pubblica amministrazione arrivano praticamente tutti dalla cancellazione del cosiddetto trattenimento in servizio, cioè la possibilità di rimanere al lavoro anche dopo aver raggiunto l’età della pensione. Chi ha scelto questa strada dovrà lasciare il posto al massimo entro la fine di ottobre di quest’anno, dice il decreto legge approvato ieri. Finora i «tempi supplementari» potevano durare due anni, addirittura cinque per i magistrati che potevano così lavorare fino a 75 anni. Spesso i magistrati che hanno scelto di rimanere al lavoro sono arrivati a ricoprire posizioni di vertice. Cancellare subito anche per loro il trattenimento in servizio avrebbe portato, secondo le agguerrite associazioni di categoria, a decapitare la magistratura. Alla fine l’hanno spuntata. Solo per loro i tempi supplementari resteranno possibili fino alla fine del 2015, anche se magistrati e militari non potranno più ricorrere all’aspettativa per ricoprire incarichi da dirigente. Agevolate le uscite dei più anziani, il decreto facilita le entrate dei più giovani, allentando gradualmente il turn over. Quest’anno il rapporto è al 20%, un’assunzione ogni cinque uscite. Salirà fino all’80% nel 2017, considerando non più il numero delle persone ma l’ammontare degli stipendi. Confermata la mobilità obbligatoria entro i 50 chilometri. I criteri dovranno essere stabiliti entro 2 mesi con i sindacati, altrimenti provvederà il governo.

PENSIONI
Ritiro in anticipo?
Sì ma con il contributivo
Nel disegno di legge delega, e quindi non subito in vigore ma con un lungo percorso parlamentare davanti, il governo riscrive anche le regole per le pensioni. Bocciata l’idea dei veri e propri prepensionamenti il testo permette l’uscita anticipata dal lavoro ma a patto di accettare una severa sforbiciata all’assegno previdenziale. Rispetto ai 66 anni e tre mesi di adesso sarebbe possibile lasciare a 57 anni con 35 di contributi ma con un assegno calcolato interamente con il sistema contributivo, quello meno vantaggioso. La stessa possibilità sarebbe estesa anche ai lavoratori del settore privato, applicando la cosiddetta opzione donna, una regola che oggi riguarda solo le lavoratrici. Si introdurrebbe così un elemento di flessibilità generale nella riforma Fornero. Sempre nel disegno di legge delega c’è anche la possibilità di scegliere il part time negli ultimi cinque anni di lavoro: orario e stipendio al 50% ma con la garanzia di avere la stessa pensione di chi continua a lavorare a tempo pieno fino alla fine della carriera. Un altro modo per fare spazio gradualmente ai giovani che però avrebbe un costo per lo Stato. Nella delega ci sono anche le nuove regole per i dirigenti, con gli incarichi a tempo, la parità di genere e la parte variabile dello stipendio agganciata all’andamento dell’economia italiana.

DICHIARAZIONI
730 precompilato dal 2015
Si comincia dai pensionati
La dichiarazione dei redditi precompilata dovrebbe diventare operativa già dall’anno prossimo solo per i dipendenti pubblici e pensionati, quasi la metà dei 41 milioni di contribuenti italiani. In un secondo momento, forse dal 2016, dovrebbe coinvolgere tutti i lavoratori dipendenti, anche quelli del settore privato, portando il modello precompilato a casa di tre contribuenti su quattro. Il tutto è contenuto nel primo decreto attuativo della delega fiscale che ieri è stato esaminato dal consiglio dei ministri e poi dovrà passare al parere delle commissioni parlamentari.
Nel nuovo modulo compariranno una serie di informazioni che il Fisco ha già a disposizione come quelle anagrafiche e quelle relative al reddito contenute nel Cud, oltre alle detrazioni come quelle per i familiari a carico. Altri dati già disponibili riguardano gli immobili, compresi quelli dati in affitto con il sistema della cedolare secca. Sarà così alleggerito il lavoro dei Caf, i centri di assistenza fiscale, che però potrebbero avere maggiori responsabilità di certificazione della correttezza. Un altro decreto introduce il Pin del cittadino, codice unico per tutti i rapporti on line con la pubblica amministrazione. Non ci sarà più il visto di conformità per i rimborsi Iva sopra i 10 mila euro mentre sale il tetto sotto il quale non si deve presentare la dichiarazione di successione: da 50 mila a 75 mila euro

IMPRESE
Bolletta elettrica tagliata
Diritti camerali dimezzati
Il risparmio di 2 miliardi di euro per le piccole e medie imprese arriva da due voci. La prima è il dimezzamento dei diritti che le aziende oggi devono pagare alle camere di commercio, in attesa di una revisione del sistema che dovrebbe arrivare con la legge delega e realizzare una riduzione del numero delle camere su base regionale. L’altra voce è il taglio del 10% delle bollette elettriche che arriva eliminando una serie di agevolazione oggi utilizzate soprattutto dalle grandi aziende, ad alto consumo di energia. Il taglia bollette è parte del pacchetto presentato dal ministro per lo Sviluppo economico Federica Guidi che comprende diverse misure: la detassazione del 50% sugli investimenti incrementali in beni strumentali e beni immateriali, come brevetti e software, la revisione dell’agevolazione Ace (Aiuto crescita economica), che introduce la possibilità di dedurre anche a valere sull’Irap. C’è poi una sorta di super Ace, ossia un potenziamento delle agevolazioni e dei benefici per gli aumenti di capitale finalizzati alla quotazione in Borsa. Per le imprese quotate, è prevista inoltre una semplificazione normativa mentre viene eliminata la ritenuta d’acconto sulle obbligazioni non quotate collocate presso investitori qualificati. Semplificazioni anche per le emissioni di obbligazioni da parte di società per azioni e società a responsabilità limitata.

ACCORPAMENTI
Rinviata la carta unica auto
Forestali, salta la fusione
Ancora una volta l’annunciato «accorpamento Aci, Pra, motorizzazione civile» viene rinviato all’ultimo momento. La fusione delle due banche dati con la creazione di una carta unica del veicolo era contenuta nelle bozze del decreto legge sulla pubblica amministrazione. Anzi, il governo aveva anche la tentazione di anticiparlo sotto forma di emendamento al disegno di legge che convertiva un decreto già in Parlamento, quello sul bonus da 80 euro. Ma, pur nella confusione di testi che ancora non sono definiti nei dettagli, l’accorpamento è saltato, con qualche momento di tensione fra il premier Matteo Renzi e il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi. Salta così anche la possibilità di far aumentare fino al 12% il bollo auto nel solo 2015, che in realtà nell’ultima versione del decreto era stato riscritto prevedendo aumenti progressivi a seconda della potenza del mezzo. L’accorpamento potrebbe tornare sul tavolo del consiglio dei ministri la prossima settimana oppure finire nel disegno di legge delega, dove ci sono altre razionalizzazioni, come quello delle prefetture, che dovrebbero diventare una per Regione, con deroghe possibili per motivi di sicurezza. Marcia indietro, invece, sulla fusione di Corpo forestale e guardie carcerarie con gli altri corpi di polizia.
a cura di Lorenzo Salvia

STIPENDI DEI MAGISTRATI
PIGI BATTISTA
Protestarono. Protestarono vivacemente, prima nel 2002 e poi nel 2008, i magistrati che videro nella proposta del governo sul loro trattamento pensionistico una minaccia alla autonomia e alla indipendenza della magistratura. Come in questi giorni. Solo che in quelle due occasioni, «l’attacco alla magistratura» sarebbe stata sferrato con la proposta di aumentare l’età pensionabile. Ora invece, con la proposta di diminuirla. Esiti opposti, identica veemente protesta: ogni volta che si parla di soldi e carriere, negli organismi sindacali scatta incoercibile la pulsione a dare l’allarme sull’«indipendenza» violata, sull’«autonomia» compromessa. Compromessa per un paio d’anni di pensione? Sì.
Fantastica questa attitudine dell’organo sindacale della magistratura, la Anm, di fare di una questione di sacrosanti trattamenti in denaro, una sublime questione di libertà e di indipendenza. Ieri, nella presentazione della bozza che il governo ha preparato per la riforma della Pubblica amministrazione, la riduzione dell’età pensionabile per i magistrati, motivata dall’esigenza di accelerare il turn-over in tutto il pubblico impiego, è subito diventato un attentato all’intero assetto giudiziario: «Con la pensione a 70 anni, la Cassazione chiuderebbe». Avete letto bene: a 70 anni, non a 52 o a 60. A 70 anni. La difesa (legittima) di una categoria trasfigurata a difesa di un organo decisivo dello Stato di diritto, nientemeno. Invece quando l’aumento dell’età pensionabile venne proposto con un principio generalizzato di riforma delle pensioni resa necessaria dalla crescita delle aspettative di vita e dall’invecchiamento progressivo della popolazione, un’altra «indipendenza» venne invocata, come se il magistrato costretto a lavorare anziché a godersi il meritato riposo dopo una lunga e soddisfacente carriera fosse l’emblema del giudice calpestato nei suoi diritti fondamentali.
Qualche mese fa, quando il neonato governo Renzi, per finanziare la restituzione Irpef degli 80 euro mensili, propose un tetto massimo alle retribuzioni dei supermanager ma anche dei magistrati con oltre 240 mila euro annui di stipendio, da parte dell’Associazione nazionale magistrati non si esitò a legare indissolubilmente la pesantezza della busta paga all’indipendenza dei giudici. O, meglio, «il collegamento che vi è tra lo stipendio dei magistrati e il principio di indipendenza». Collegamento molto avventuroso, che però aveva ricevuto poco prima l’autorevole avallo della Corte costituzionale, secondo la quale «l’indipendenza degli organi giurisdizionali si realizza anche con l’apprezzamento di garanzie circa lo status dei componenti nelle sue varie articolazioni concernenti, fra l’altro, oltre alla progressione in carriera, anche il trattamento economico».
Non è detto che i magistrati, e anche i giudici della Corte costituzionale, abbiano l’esatta nozione delle reazioni certamente superficiali e ingiuste che queste parole producono sulla cittadinanza. L’idea che un magistrato tanto più sia indipendente quanto più guadagni, faccia carriera e vada in pensione non delinea, a occhio e croce, una considerazione molto alta della fibra morale di chi, piuttosto, dovrebbe custodire la sua indipendenza comunque, anche con uno stipendio più magro (neanche di tanto, poi). Quel collegamento che invece l’organo sindacale dei magistrati istituisce in tutte le occasioni, ultima quella della riforma della pubblica amministrazione. L’indipendenza, del resto, si può conquistare sempre. L’anagrafe non c’entra. E nemmeno il conto in banca.

DAGOSPIA
AUTHORITY RIDUCANO 20% STIPENDIO ACCESSORIO
Le autorità indipendenti dovranno provvedere, a decorrere dal 1 luglio 2014 ’’nell’ambito dei propri ordinamenti a una riduzione non inferiore al 20% del trattamento economico accessorio del personale dipendente, inclusi i dirigenti’’. A partire dal 1 ottobre gli organismi dovranno ridurre la spesa per consulenze e ricerca del 50% rispetto a quella sostenuta nel 2013. Riduzione del 50% anche per la spesa per gli organi collegiali non previsti dalla legge.

VIA ANCHE MEDICI E PROF CON I REQUISITI ANZIANITÀ
La pubblica amministrazione potrà mandare a riposo i lavoratori che hanno i requisiti per la pensione anticipata (nel 2014 42 anni e 6 mesi di servizio per gli uomini, 41 anni e 6 mesi per le donne) anche se non avranno ancora l’età della pensione di vecchiaia inclusi i professori universitari, i dirigenti medici responsabili di struttura complessa e il personale delle autorità indipendenti. E’ quanto emerge dal dl di riforma della pubblica amministrazione.

SPOSTAMENTI SENZA ASSENSO ENTRO 50 KM
I dipendenti pubblici potranno essere spostati senza assenso del lavoratore sempre nello stesso Comune e in un qualsiasi ufficio pubblico nel raggio di 50 chilometri. Lo si legge nella bozza di riforma della P.a. Nella mobilità volontaria ,ovvero quella scelta dal travet, non è necessario il nulla osta dell’amministrazione di provenienza.

IL SUNTO DI REPUBBLICA
Turn over, sblocco progressivo dimezzati i permessi sindacali possibile part time al 50%




LARGO
alle nuove generazioni: nella pubblica amministrazione grazie all’abolizione del trattenimento in servizio entreranno 15 mila giovani. Ai dipendenti pubblici infatti, dal prossimo 31 ottobre, non sarà più possibile restare al lavoro dopo il raggiungimento dell’età pensionabile (66 anni per gli statali, 70 per i magistrati). Ma sempre per i magistrati, onde evitare vuoti in organico, l’abolizione del trattenimento sarà spostata al 31 dicembre 2015. La novità, contenuta nel primo articolo del decreto legge, secondo il governo renderà possibili 15 mila nuove assunzioni (5 mila per i sindacati).
Per i dipendenti pubblici arriva anche la mobilità obbligatoria (valida senza il loro consenso) entro i 50 chilometri («rispettando lo stipendio» ha assicurato il ministro Madia) e per quella volontaria non sarà più necessaria l’autorizzazione del «vecchio» ufficio. Subiranno un taglio secco i distacchi sindacali (il monte ore sarà dimezzato per tutte le associazioni): norma — contenuta nel decreto — che certo non piacerà a Cgil, Cisl e Uil cui il governo ha promesso uno sblocco dei contratti pubblici fermi dal 2009. In attesa di tale riapertura — e delle risorse da trovare nella legge di Stabilità — il decreto alleggerisce da subito lo stop al turn over. Lo sblocco sarà calcolato non più in base al numero delle persone da assumere in relazione a quelle uscite dal mondo del lavoro, ma alla spesa sostenuta (si parte da un recupero del 20 per cento per arrivare al 100 per cento nel 2018). Nelle legge delega varata dal governo sono invece contenute misure che riguardano la conciliazione dei tempi della vita e del lavoro dei dipendenti pubblici: si prevedono voucher per baby sitter e badanti, convenzioni con asili, possibilità di orari elastici, più part time.

Bonus con tetto del 15% ma revoca dell’incarico se l’obiettivo non è raggiunto
PER i dirigenti dello Stato arriva il ruolo unico, il contratto a termine, la possibilità di essere licenziati e lo stipendio misurato anche in base all’andamento del Pil. Norme contenute nel disegno di legge delega varato ieri dal Consiglio dei ministri. L’obiettivo dichiarato dal governo è quello di far entrare più mercato, carriera e competizione in quello che la Madia ha definito un «mondo ingessato».
Il contratto dei dirigenti pubblici sarà a termine e durerà tre anni, i risultati del mandato saranno valutati da una Commissione. Se alla fine del periodo al dirigente non sarà assegnato un nuovo incarico, scatterà la messa in mobilità e alla fine di questa il possibile licenziamento. Il loro stipendio sarà in parte ancorato all’andamento del Pil e in parte legato ai risultati ottenuti (ma per il bonus ci sarà un tetto massimo sullo stipendio del 15 per cento). Ci sarà il diritto all’aspettativa per chi deciderà di fare esperienza presso i privati o all’estero, ma ai dirigenti che avranno raggiunto l’età pensionabile (anche nelle società partecipate) non sarà più possibile assegnare nuovi incarichi. Il decreto legge stabilisce invece che, negli enti locali, la quota di dirigenti assunti per competenze specifiche e al di fuori dal concorso pubblico passerà dal 10 al 30 per cento.
Un capitolo a parte del decreto è poi dedicato alle Authority: i componenti delle varie autorità garanti, una volta arrivati a scadenza e per un periodo di quattro anni, non potranno nuovamente essere eletti in un altro organismo. Non sarà quindi più possibile il passaggio da una Authority all’altra. Le autorità garanti, inoltre, dovranno ridurre del 50 per cento le spese per consulenza e del 20 per cento i bonus concessi a tutti i dipendenti, dirigenti
compresi.