Ettore Finazzi-Agrò, Limes: Brasiliana 6/2014, 13 giugno 2014
SAN PAOLO CITTÀ IBRIDA
SI POTREBBE INIZIARE A PARLARE DI SAN Paolo in termini numerici, tenendo conto della consistenza demografica e della crescita esponenziale dei suoi abitanti in un arco di tempo assai breve: da poco più di 1,3 milioni di abitanti nel 1940 ai quasi venti milioni dell’attuale regione metropolitana. Se ne potrebbe anche parlare a partire dagli enormi problemi sociali che ne lacerano il tessuto urbano, con sacche di marginalità estrema visibili anche in zone centrali: i poveri che dormono precariamente accampati nella Praça da Sé, la piazza della Cattedrale, forse il vero centro storico di questa megalopoli; oppure i tantissimi drogati che sopravvivono, nell’indifferenza generale, in una sorta di claustrofobico inferno urbano – denominato, per motivi evidenti, Cracolândia – in un altro quartiere centrale come Bom Retiro, alle spalle di una bellissima e moderna sala da concerti ricavata da un’antica stazione ferroviaria e frequentata dalla borghesia paulista. Ancora, se ne potrebbe parlare in termini strettamente economici, visto che San Paolo rimane il motore trainante della finanza e dell’industria brasiliane, a dispetto della crescita travolgente di distretti manifatturieri come quello di Recife, nel quale a fine 2014 sarà inaugurata la seconda grande fabbrica della Fiat in Brasile dopo quella storica di Betim, vicino a Belo Horizonte.
Si potrebbero, insomma, utilizzare varie chiavi di lettura per accostarsi a questa enorme realtà. Ma il modo migliore per intendere cosa rappresenti, cosa abbia rappresentato e cosa potrebbe in futuro rappresentare tale immenso agglomerato urbano nella formazione e affermazione del Brasile su scala mondiale è mescolare tutti questi fattori per cercare di cogliere il senso storico e politico di una dimensione complessa, che a partire (almeno) dagli anni Dieci del Novecento si è venuta affermando come il cuore pulsante di un paese assai disomogeneo e squilibrato. Per capire l’importanza crescente del Brasile sul piano internazionale bisogna partire da San Paolo e tornare ad essa, in un circolo ermeneutico che parta dalle contraddizioni socioeconomiche per rileggerle nella loro natura di specchio di una nazione geograficamente enorme e relativamente giovane in termini storici.
Del resto, anche volendo ricondurre il Brasile alla sua natura di país tropical (formula assai abusata), bisogna ricordare che, come già indicato da Claude Lévi Strauss anni or sono, il Tropico del Capricorno attraversa la città di San Paolo: città tropicale, quindi, seppur segnata da un clima che, per la sua particolare posizione geografica (è collocata su un altopiano, a un’altitudine media di 800 metri sul mare), non appare per nulla tropicale. Almeno nell’immagine che noi europei attribuiamo ai tropici, in un’idealizzazione dettata da un desiderio di altrove. Basterà ricordare un grande scrittore paulista degli anni Venti, che nelle sue poesie sperimentò un’identificazione totale con la sua città di origine e che così definisce San Paolo: «Mia Londra dalle nebbie leggere!/ Piena estate. Diecimila milioni di rose paulistane./ Nell’aria c’è una neve di profumi./ Fa freddo, molto freddo». In questa famosa poesia di Mário de Andrade (Paisagem n. 1, pubblicata nel 1922) si allude a una città già profondamente segnata dalla presenza degli immigrati europei, attratti dal tumultuoso sviluppo economico innescato dalla produzione e commercializzazione del caffè, «oro nero» alla base anche del processo di accelerata industrializzazione della regione paulista.
Giacché è San Paolo, con il suo sterminato hinterland (comprendente il cosiddetto Abc paulista, dove si concentra un gran numero di aziende manifatturiere e del terziario avanzato), che continua ancora oggi a dominare la scena industriale, finanziaria e politica del Brasile. Ancorché nati altrove, Fernando Henrique Cardoso e Luiz Inácio Lula da Silva (rispettivamente, il terzultimo e il penultimo dei presidenti brasiliani) sono da considerare a tutti gli effetti esponenti politici paulisti. Proprio la diversa estrazione sociale di queste due figure che hanno dominato la scena politica degli ultimi anni l’uno di origine borghese, grande intellettuale di formazione marxista (anche se eletto in una coalizione di centro-destra) e professore universitario; l’altro figlio di genitori analfabeti e costretto a interrompere presto gli studi, operaio, sindacalista e uomo politico di sinistra da un’idea di come San Paolo continui a esercitare un ruolo dominante nel contesto nazionale e di come riesca a produrre personalità carismatiche per molti aspetti antitetiche.
2. Se già Mário de Andrade la definiva «arlecchinale» per la sua essenza multietnica – ambientandovi buona parte del suo famoso romanzo Macunaíma: l’eroe senza nessun carattere, pubblicato nel 1928 e definito nel sottotitolo «rapsodia» – in anni recenti gli aggettivi che hanno tentato di definire San Paolo hanno attinto anch’essi alla terminologia musicale. Città «sincopata» o «polifonica», essa appare in effetti segnata da una complessità difficilmente riducibile a unitarietà. Una realtà multiforme, nella quale le distanze socio-culturali sembrano confondersi a formare una trama che cattura l’immagine di questa enorme nazione latinoamericana.
La grande megalopoli brasiliana è attraversata da un’ansia di cambiamento che negli anni l’ha più volte ridisegnata, al punto che della città amata e cantata da Mário de Andrade negli anni Venti non resta quasi più nulla, appena labili tracce. Come osserva, di nuovo, Lévi-Strauss nel capitolo dedicato a San Paolo dei suoi Tristi tropici, la città «senza fermarsi nella maturità» passa direttamente «dal nuovo al decrepito»: come altre città americane, anche Sampa (così è familiarmente definita dai brasiliani) non solo appare «costruita di fresco», ma lo è «per rinnovarsi con la stessa rapidità con cui è nata, cioè male». Parole impietose che svelano, tuttavia, un’affezione profonda da parte del grande antropologo francese, giunto in Brasile nel 1935 per insegnare sociologia nell’appena fondata Università di San Paolo che, altro primato paulista, occupa oggi il primo posto in tutte le classifiche accademiche relative all’America Latina. Nel 1996, quarant’anni dopo Tristi tropici e alcuni anni prima di scomparire, Lévi-Strauss pubblicò un album di istantanee da lui stesso scattate negli anni Trenta, intitolato Saudades de São Paulo, con una sua introduzione piena di nostalgia per la città della sua giovinezza. Le fotografie sono la testimonianza di un tessuto sociale e di un contesto urbano ormai scomparsi, travolti da quell’ansia di progresso, da quel desiderio di nuovo tipici di tutto il Brasile novecentesco.
San Paolo è cresciuta disordinatamente su se stessa in una sorta di stratificazione continua, che l’ha portata a espandersi sia in verticale (un numero crescente di grattacieli occupa quasi tutte le zone centrali) che in orizzontale (la cintura sterminata di favelas che la circonda accoglie ondate di poveri ed emarginati provenienti da varie regioni brasiliane o da altri paesi latinoamericani), soprattutto lungo le direttrici ferroviarie che portavano i sacchi di caffè dalle zone di produzione alla capitale e da qui a Santos, punto d’arrivo delle merci prodotte nell’entroterra. Nel corso degli anni, la città è divenuta il luogo dell’accumulazione e dello smistamento: ammasso di beni, di persone e di sapere; crocevia economico e culturale che riceve e distribuisce, in uno scambio ineguale ma pur sempre fruttifero e inarrestabile. Città transitoria, mutevole nel suo gigantismo e immobile nella sua fragilità sociale (come il paese che la contiene), sembra aver ereditato dalla sua storia più remota questa impermanenza, considerando che gli indigeni che abitavano la primitiva São Paulo de Piratininga erano popolazioni nomadi o seminomadi. Fondata nel 1554 dal gesuita José de Anchieta (da poco assurto all’onore degli altari) e dall’avventuriero di origine portoghese João Ramalho – che si disputavano, in una lotta senza quartiere, i corpi e le anime degli indios – la città sembra portare inscritta, fin dalla sua denominazione originaria, questa doppia natura: selvaggia e santa, nomade e immobilizzata in un codice religioso secolare. Poco importa che abbia alla fine prevalso il nome dell’apostolo di Tarso, perché se qualcosa resta impresso nelle viscere della città è appunto il suo primitivo nomadismo, quella spinta che la porta a cambiare continuamente.
La San Paolo cangiante, frenetica, crogiolo di etnie e di culture che si delinea agli inizi del XX secolo sembra specchiarsi nella San Paolo attuale, sempre più emblema di una nazione complessa e ibrida. Vale la pena di ricordare l’apporto fondamentale dell’immigrazione, sia europea, sia mediorientale e orientale. Se l’attuale sindaco di San Paolo è Fernando Haddad (cognome che denuncia la sua ascendenza araba) e se gli abitanti di origine europea (soprattutto italiani di seconda o terza generazione) sono talmente tanti da risultare non censibili con precisione, ci si può soffermare sui discendenti di origine giapponese (il termine generico per definirli è nikkeis). Una passeggiata lungo l’Avenida Paulista – asse finanziario della città, dove si erge il grattacielo in cui ha sede la potentissima Fiesp, la Federazione degli industriali di San Paolo – basta a confermare, anche visivamente, come la componente nipponica sia estremamente rilevante sul piano numerico ed economico. Stupisce la rapidità con cui la società e la cultura pauliste siano riuscite ad assorbire un’etnia recente (il primo contingente di immigranti giapponesi arrivò in Brasile nel 1908) e assai distante sul piano linguistico, religioso e antropologico. I discendenti di seconda (nisei) e di terza generazione (sansei) si sono assimilati quasi completamente, al punto che quando alcuni anni fa, nel periodo di maggiore crisi economica del Brasile, alcuni di loro hanno tentato di tornare in Giappone, sono stati fatti oggetto di discriminazione perché considerati «brasiliani», dunque pigri e disonesti, nonostante il loro aspetto orientale.
3. Un altro grande esponente del modernismo paulista degli anni Venti, Oswald de Andrade, fin dal 1928 con il suo Manifesto antropofago aveva esaltato, attraverso l’uso metaforico del cannibalismo tipico di molte tribù indigene del Brasile, la capacità della cultura brasiliana di assimilare l’altro, producendo, attraverso una sorta di processo metabolico, una cultura originale, pur nella persistenza degli influssi delle culture allogene. Questa cultura dell’accoglienza, sia pure in tale versione apparentemente divoratrice, ha lasciato il passo con gli anni a un conflitto crescente tra etnie e ceti sociali, con numerosi casi di aggressione nei confronti di immigrati provenienti dal Nord Est brasiliano e con fenomeni di violenza diffusi tipici di società sperequate qual è quella di San Paolo. Eppure, scontati i casi di feroce contrapposizione tra chi ha molto e chi nulla, San Paolo mantiene una caratteristica che la rende irreplicabile: la continua contaminazione di stili, forme di vita, linguaggi, culture eterogenee, che ne fanno un paradigma geopolitico della moderna società globalizzata. Una società in cui l’alto e il basso, il popolare e il colto, la miseria e il benessere si presentano come dimensioni incompatibili, ma nella quale il confine istituzionale tra gli opposti tende a mantenere la sua natura di soglia, di limen più che di limes.
Potrei menzionare, quale esempio conclusivo, i recenti episodi di protesta – alcuni dei quali sfociati in manifestazioni violente – iniziati proprio a San Paolo con il movimento del passe livre, ossia la richiesta di un trasporto gratuito contro la decisione di innalzare il prezzo dei biglietti degli autobus. Tale protesta si è poi generalizzata, estendendosi ad altre città brasiliane e trasformandosi in una lotta per una più equa redistribuzione della ricchezza, anche a fronte dell’enorme dispendio di risorse legato alla costruzione delle strutture destinate a ospitare i Mondiali di calcio. Basta osservare le fotografie, o meglio ancora assistere di persona a tali manifestazioni, per rendersi conto che la componente più povera della società paulista è stata coinvolta solo marginalmente in questo ampio movimento di contestazione. I dimostranti sono soprattutto giovani della piccola e media borghesia, che a fronte di una crescita del potere economico e acquisitivo si trovano a usufruire di servizi (scuola, sanità, trasporti) fortemente carenti. Questi giovani, in forma spesso pacifica – fatti salvi i casi in cui si è avuta l’infiltrazione di black bloc – reclamano per sé e per il resto della popolazione una società più giusta, un potere meno corrotto e più efficiente, rendendo più porose le frontiere che separano le classi e dichiarando la loro volontà di far ridiventare San Paolo una città in cui sia più facile vivere, con la prospettiva di sostituire la distinzione con l’assimilazione. Affinché il confine che imprigiona e cristallizza le diverse istanze sociali divenga finalmente la soglia stretta che dà accesso a una possibile, rapsodica comunità.