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 2014  giugno 13 Venerdì calendario

BIOGRAFIA DEL MARACANÃ

[note alla fine]

1968 Età sette anni. Seduto sui duri spalti di cemento del Maracanã accanto a mio padre. Noi e quasi altri centomila tifosi: un pubblico normale, non eccezionale per un classico nel Maracanã. In campo, il mio Flamengo veniva fatto a pezzi dalla squadra del Botafogo che aveva degli artisti del calibro di Gérson, Jairzinho e Paulo César. Per non parlare di Afonsinho, il fuoriclasse capellone che si sarebbe poi ribellato alla struttura schiavista del calcio brasiliano. Ma quel giorno, il bambino che io ero aveva occhi solo per la maglia numero sette della squadra avversaria. Zequinha era l’ala destra di riserva del Botafogo. Ciò nonostante, il mulatto passeggiava per la difesa del Flamengo con l’eleganza di un sambista, scansando i difensori senza perdere il ritmo dei passi. Dopo essere riuscito a pareggiare con grande sforzo, il Flamengo ne prende ancora uno, due, tre. Di fronte al tabellone umiliante che indicava il 4 a 1, mio padre mi prese per mano e decise di andare via. Quell’anno fu segnato dalla marea di studenti scesi in strada contro la dittatura militare, che avrebbe mostrato il suo volto più duro con il tenebroso atto istituzionale numero 5, il quale chiuse il parlamento, impose la censura alla stampa e alle arti e sospese l’habeas corpus. La mia dolce protesta contro mio padre non era politica, ma aveva un fondamento: non mi sembrava giusto abbandonare la mia squadra in un momento così difficile. In quell’occasione, feci a me stesso due promesse, una che non sono riuscito a rispettare e un’altra che ho mantenuto fino ad oggi. Promisi che non sarei mai andato via da una partita del Flamengo prima del fischio finale che, come la morte, segna la fine definitiva. La seconda promessa era un po’ contraddittoria: incantato e spaventato allo stesso tempo dall’attaccante avversario, decisi che sarei diventato ala destra.

1944 Non si pensi che mio padre fosse un tifoso qualsiasi. Lui era tifoso del Flamengo da molto prima che si costruisse il Maracanã. Si ricordava bene dell’epoca in cui i club disputavano le partite nei loro stadi che, escludendo il São Januário, stadio del Vasco da Gama, erano piuttosto meschini, quasi casalinghi. Ho perso il conto del numero delle volte in cui mio padre mi ha raccontato della conquista dei tre campionati di fila nel 1942-43-44, una vittoria all’ultimo minuto nello stadio della Gávea. Papà raccontava con entusiasmo come l’argentino Valido, che giocava con la febbre, si fosse appoggiato su un terzino del Vasco da Gama per segnare di testa il gol della vittoria. Parlava come se avesse visto l’azione a due metri di distanza, il che a quell’epoca non sarebbe stato impossibile. Il Flamengo aveva un’ottima squadra, con due indiscutibili stelle. In difesa l’incomparabile Domingos da Guia, a cui non sembrava bello che un terzino avanzasse tirando calci e pedate e preferiva prendersi il pallone educatamente e correre dribblando gli attaccanti avversati. E Zizinho a centrocampo, senza dubbio il più grande giocatore brasiliano prima di Pelé e Garrincha. Ma ciò che è curioso è che il grande idolo di mio padre era Vevé, anche lui ala, solo che sinistra. Vevé, nei ricordi mitologici di mio padre, smontava la difesa con un dribbling corto, aveva un tiro potente ed era uno specialista nell’arrivare alla porta usando il «senza stacco», cioè stoppando un tiro dall’alto prima che il pallone toccasse terra. Vevé, con i suoi baffi sottili che ben si addicevano a quel calcio scanzonato, giocò solo fino al 1948, due anni prima della costruzione del Maracanã. Il suo compagno di squadra Zizinho, invece, sarebbe stato segnato per sempre dalla tragedia del 1950.

1950 (1° TEMPO) La Coppa del 1950 si meriterebbe il titolo di più incasinata della storia. Con i paesi europei che si stavano ancora riprendendo dalla seconda guerra mondiale, solo il Brasile presentò la candidatura per ospitare i Mondiali. Si decise di costruire uno stadio per la finale e per le partite più importanti nella zona Nord di Rio de Janeiro. Ospitare la Coppa del Mondo e costruire uno stadio rappresentavano il progresso e l’inserimento del Brasile nel mondo occidentale, una dimostrazione delle nostre capacità. Ma non troppo [1]. I lavori marciarono a ritmi serrati, ma lo stadio non fu completato in tempo. Non servì a niente chiamare i soldati dell’Esercito ad aiutare. Persino il giorno della finale c’erano ancora impalcature e materiale da costruzione. Lo stadio dava l’impressione, secondo il giornalista inglese Brian Glanville, di un immenso cantiere edile. Non era un’esagerazione. L’attaccante brasiliano Ademir dice che lui e gli altri giocatori erano diffidenti al momento della prima partita contro il Messico. Non a causa dell’avversario, che fu battuto facilmente, ma per la presenza delle impalcature nello stadio che davano l’impressione di un cantiere con i lavori in corso, pericolante.
Lo stadio a cui lui si riferiva e che tutti noi conosciamo come Maracanã, all’epoca era chiamato stadio municipale Mendes de Morais. Fu battezzato col nome del sindaco che ne aveva ordinato la costruzione lottando contro l’opposizione ferrea del giornalista Carlos Lacerda. Dopo la sconfitta con l’Uruguay non fu mai più chiamato con questo nome. Alla fine era stato proprio il sindaco che, nel tentativo di sfruttare al massimo i risvolti politici della sua impresa, davanti a duecentomila persone si era rivolto ai giocatori brasiliani prima della finale con parole incredibilmente arroganti e irrispettose nei confronti degli uruguaiani, dicendo che i brasiliani erano già campioni.
Quando la partita e il sogno di essere campioni mondiali finirono in tragedia, la folla non perdonò il sindaco. Passato il silenzio, la tifoseria brasiliana applaudì la nazionale uruguaiana. Nessuno usciva dallo stadio, tutti sembravano paralizzati dallo shock. Ma, poco a poco, iniziarono a farsi sentire: i primi bruciarono dei giornali, quegli stessi giornali che stavano già stampando articoli in cui, a titoli cubitali, si dichiarava il Brasile campione del mondo. Poi sradicarono furiosamente il busto del sindaco e lo lanciarono nel fiume Maracanã, che dà il nome al quartiere. A partire da allora il gigante di cemento fu ribattezzato Maracanã, che in lingua tupi significa «simile a un grande sonaglio». Nell’intimità, da noi tifosi fu chiamato sempre, affettuosamente, Maraca. Perché in quel modo ironico che abbiamo noi carioca di dimostrare affetto, tutti i diminutivi sono in realtà un elogio.

1950 (2° TEMPO) Ma non volevo ricordare questa storia così triste, che tutti i brasiliani sanno a memoria. Racconterò la storia della prima grande festa che ci fu nel Maracanã e che mio padre ricordava sempre con allegria. Accadde tre giorni prima della tragedia. Nelle partite del girone finale, il Brasile batté la Svezia per 7 a 1 e poi affrontò la temibile nazionale spagnola. Ciò che successe in quel giorno del 13 luglio 1950 fu pura magia. Sulla rinomata Gazzetta dello Sport di Milano, Giordano Fattori diceva che c’erano state «scienza, arte, balletto e perfino numeri da circo». Entusiasta, paragonava Zizinho a un Leonardo da Vinci che «creava dei capolavori con i piedi sull’immensa tela verde del Maracanã».
In mezz’ora di partita, la Furia era già stata schiacciata da tre gol brasiliani: Ademir, Jair e Chico. La macchina da gol della Nazionale brasiliana non si fermò lì. Iniziato il secondo tempo, dopo 11 minuti il Brasile segnava il 4 a 0 con Chico, grazie a una «astuzia infernale di Ademir», secondo uno dei cronisti della Rádio Nacional. A quel punto la folla non si contenne più e iniziò a intonare olé olé, come se la Spagna fosse diventata un animale da abbattere. Fu allora che un gruppo di tifosi iniziò a cantare una marchinha [2] del carnevale 1938 che faceva già parte del repertorio popolare, il cui ritornello diceva: «Eu fui às touradas em Madri (Parará tchim bum bum bum/ Parará tchim bum bum bum)» [3].
La festa continuò con Ademir che segnava il 5 a 0 due minuti dopo il gol di Chico. Iniziarono a vedersi dei fazzoletti bianchi e l’intero stadio che cantava «Está chegando a hora» [4] agli spagnoli, il che fece commuovere anche i cronisti della Rádio Nacional: «Lo spettacolo emozionantissimo dei fazzoletti bianchi: centocinquantamila persone che sventolano dei fazzoletti bianchi di fronte agli spagnoli». Al 25° del secondo tempo, Zizinho, sempre lui, segna il sesto gol del Brasile, coronando una grande partita. Pochi minuti dopo, la Spagna fa il suo gol della bandiera, risultato finale 6 a 1. A un minuto dalla fine, era già carnevale per i tifosi: scoppiavano i fuochi di artificio, si lanciavano palloncini, si sventolavano freneticamente i famosi fazzoletti bianchi e, infine, tutti si rimisero a cantare Touradas em Madri.
Mio padre adorava raccontare la storia della vittoria contro la Spagna. Raccontava anche della tragedia del 16 luglio, cui lui aveva assistito nel Maracanã. Non dava dettagli sulla partita, non commentava le prestazioni dei singoli giocatori, parlava solo di una cosa: del silenzio assordante che si impossessò dei tifosi brasiliani. Per la maggior parte degli specialisti e dei saggi, la vittoria sulla Spagna portò a un’ondata di ottimismo nazionalista incontrollabile che suggellò la nostra sconfitta con l’Uruguay. Mi si conceda di dissentire. La vita si vive nel qui e ora. In quel momento, ma solo in quel momento, per la folla impazzita di gioia il Brasile era campione del mondo, del pianeta e di tutte le galassie. La folla cantò, si rallegrò, ballò e saltellò inebriata da questo sentimento. E anch’io mi rallegro sapendo che ci fu, prima del silenzio della sconfitta, la canzone.
Torniamo alla finale. Dopo che i giornali e le loro previsioni andarono in fumo, i tifosi brasiliani di tutti i colori uscirono dallo stadio «come un battaglione di morti viventi». Ma, scendendo le rampe, la folla si risvegliò e sradicò furiosa il busto del sindaco Mendes de Morais. Il sindaco fu simbolicamente destituito e scagliato nel fiume che da allora in avanti avrebbe dato il nome allo stadio. Oggi la statua che c’è nello stadio è quella del capitano della nazionale del 1958, Bellini.

1972 Undici anni. In piena dittatura militare, l’economia brasiliana cresceva a tutto vapore: quell’anno il pil aumentò più del 10% e l’anno dopo avrebbe battuto il record di sempre: 14%. Il tutto grazie a copiosi finanziamenti esteri, strette impietose sui solari, manipolazione degli indici inflazionistici e una brutale concentrazione della ricchezza. Io ancora non sapevo niente di tutto questo. Quel giorno, forse, non l’avrei neanche voluto sapere. Papà avrebbe portato tutta la famiglia al Maracanã per la finale della Coppa Independência. Era un torneo creato dai militari per lucrare ancora di più sulla conquista del 1970, sfruttando la ricorrenza patriottica dei centocinquant’anni d’indipendenza nazionale. La finale dei sogni (i loro): il Brasile del dittatore Emílio Garrastazu Médici contro il Portogallo del dittatore Marcelo Caetano, successore di Salazar. Fu una partita alla pari, combattuta e, fino al 40° minuto del secondo tempo, senza gol. Allora papà decise di uscire cinque minuti prima per evitare problemi, visto che eravamo con mia madre e mia sorella minore. Non c’è bisogno di dire che ero contrario. Quando arrivammo alla macchina, la punizione degli dei: i pneumatici erano forati. Solo dopo vidi in televisione Jairzinho che si tuffava come un pesce nell’area di porta per dare il titolo al Brasile.

1980 Diciannove anni. Ero studente di storia. L’anno precedente, era stata decretata l’amnistia. Al potere, tuttavia, c’era ancora un generale presidente. L’economia era ferma, era arrivato il momento di ripagare il debito estero moltiplicatosi durante il regime militare. In quest’anno fu fondato il Partido dos Trabalhadores [5], speranza di un nuovo modo di fare politica. Nella facoltà di Storia, chi amava il calcio era ancora considerato un alienato o un ingenuo. A me non importava. Davanti a Bellini: era così che io e i miei amici ci mettevamo d’accordo quando pianificavamo le nostre visite al Maracanã. Il buon vecchio capitano, che reggeva la coppa della nostra prima vittoria mondiale, era un simbolo perfetto della speranza che il tifoso sente prima della partita. Quel giorno, il mio Flamengo poteva vincere il suo primo titolo nazionale contro un avversario temibile, l’Atlético Mineiro di Reinaldo, Toninbo Cerezo ed Éder. A quel tempo i biglietti costavano poco, circa la metà di quelli del cinema. Normalmente li si comprava il giorno stesso, il che significava dover affrontare code che duravano ore. Per le partite speciali e decisive i biglietti si vendevano qualche giorno prima. L’orario tradizionale delle partite era alle cinque del pomeriggio, quando c’era ancora sole, e si finiva di giocare quando la notte già iniziava.
Era tardi. Quando entrammo non c’era quasi posto per «sedersi». Lo metto tra virgolette perché, con un pubblico di oltre centocinquantamila persone, ci si sistemava come si poteva. Ma la cosa peggiore fu che ci ritrovammo al confine con la tifoseria dell’Atlético. Passammo buona parte del tempo a schivare i fuochi d’artificio che la tifoseria avversaria lanciava sulla nostra. E viceversa, naturalmente. Andare al Maraca comportava sempre essere esposti al rischio: prima, durante e dopo la partita. A noi non passava neanche per la testa.
La partita fu difficile. A loro bastava un pareggio e quando noi stavamo vincendo due a uno, il meraviglioso Reinaldo dovette essere sostituito per una contusione. La nostra tifoseria non lo perdonò e gridò crudelmente: «Marcisci, marcisci». Un fuoriclasse è un fuoriclasse. Prima di uscire dal campo, Reinaldo, letteralmente con una gamba sola, pareggiò sul due a due. La nostra era una squadra da sogno, basti citare Zico, il più grande calciatore che abbia mai visto giocare. Ma c’erano anche Junior, Andrade, Adílio, un’ala sinistra indiavolata come Vevé, Júlio Cesar. L’ironia è che il gol salvatore che ci diede la vittoria e il titolo lo fece un giocatore limitato, ma che si impegnava molto, efficace e vibrante: il centravanti Nunes. Il resto fu una festa indescrivibile, dentro e fuori dal Maracanã.

2010 Cinquant’anni. Godendo di un’enorme popolarità, il presidente Lula riesce a passare il potere a Dilma Rousseff. Tre anni prima, era stato dato il glorioso annuncio che il Brasile avrebbe ospitato la Coppa del 2014, fatto che fu presentato, ancora una volta, come una dimostrazione che il Brasile aveva raggiunto il Primo Mondo. E io ero di nuovo davanti a Bellini. Non era giorno di partite. E anche se lo fosse stato, il buon vecchio Maraca era chiuso. Sarebbe stato «ricostruito» per la Coppa del 2014. Insieme al collega Chris Gaffney e ad alcuni alunni della facoltà di Storia, dove adesso ero professore, eravamo lì per fondare l’Associazione nazionale dei tifosi. La nostra paura, dimostratasi fondata, era che la Coppa del Mondo fosse il cavallo di Troia di una deriva elitaria del calcio brasiliano. Grazie all’alleanza spuria tra i politici e gli imprenditori che finanziavano le loro campagne, il 2014 sarebbe stato un grande affare. Tranne che per noi, che avremmo pagato il conto, vedendo i nostri stadi trasformati in arene igienizzate e la gente più povera espulsa dagli spalti.
Questo processo classista, in realtà, era cominciato già cinque anni prima, nel 2005, con la fine della Geral [6]. Se la tribuna era per i ricchi e le curve per la classe media più o meno benestante, la Geral era lo spazio popolare per eccellenza, segnato da una cultura propria. Da lì quasi non si vedeva la partita, è vero, ma c’erano buone vibrazioni e manifestazioni veramente caratteristiche. È stata assassinata a sangue freddo, praticamente senza proteste, tra gli applausi di quelli che lodavano la necessaria «modernizzazione del calcio brasiliano». Nel 2010 non fu così, avevamo già iniziato a comprendere il senso di quel processo di distruzione della cultura dei tifosi. Abbiamo lottato tanto. Abbiamo fatto manifestazioni, rilasciato decine di interviste, scritto articoli, partecipato a tavole rotonde. Ma la verità è che non abbiamo ottenuto una mobilitazione di massa.
Il Maracanã, lo sapevamo bene, non sarebbe mai più stato lo stesso. Il Maraca dove mi hanno rubato il portafoglio nel 1983 (e dove il Flamengo perse la finale con il Fluminense), dove sono stato quasi stritolato dalla folla in un gioco a esclusione contro il Paraguay nel 1977, dove è caduto un pezzo di cemento davanti ai miei occhi nel 1984, dove ho visto il mio Flamengo diventare campione brasiliano sei volte e campione carioca innumerevoli volte, dove ho comprato i biglietti falsi dai bagarini, dove sono scappato dalla polizia e dai suoi cavalli (di quelli che nitriscono), dove per poco non sono caduto dalla curva nel 1992, dove quando ero bambino andavo a vedere Babbo Natale che arrivava in elicottero, dove oltre a Zico ho visto Eusébio, Doval, Rivelino, Maradona, Bebeto, Románo, Renato Gaúcho e molti altri, dove mio figlio ha imparato a dire le parolacce e a essere fedele alla sua, alla nostra squadra, dove non potrò mai portare mia figlia, che è nata dopo. Quel Maraca, mai più.

2013 Cinquantadue anni. Inaugurazione del nuovo Maracanã. Dopo quasi tre anni, al prezzo di oltre un miliardo di reais, lo stadio era finalmente pronto. Quello stesso mese di giugno il Brasile è stato scosso da un’ondata di manifestazioni che hanno portato milioni di persone per le strade. In un contesto di crisi economica, sfiducia nella politica, senso di ingiustizia e mancanza di speranze per il futuro, i giovani si sono mobilitati per protestare e la Coppa del Mondo con i suoi costi milionari è diventata il simbolo perfetto da attaccare. Anche io sono sceso in strada, ma non potevo non andare al nuovo Maracanã. Per lo meno, Bellini era ancora là. Dall’esterno, sembrava lo stesso: la facciata semplice, che adoro, la rampa di cemento vecchia di guerra, era tutto a posto. Quando alla fine mi sono accomodato sul mio sedile numerato, è stato allora che ho sentito la vertigine. Per cinque minuti sono rimasto in stato di shock. Licia se n’è accorta e mi ha chiesto, affettuosamente, che cosa avessi. Io non riuscivo a capire dove fossi. Non riuscivo a riconoscere lo stadio. Sembrava una realtà fuori posto. Più tardi, parlandone con gli amici, tutti mi dicevano la stessa cosa: non sapevano più orientarsi, non riconoscevano più il luogo che avevano frequentato per decenni.
Io che ho passato un anno in Inghilterra e che ho visto decine di stadi dico senza paura di sbagliarmi che questo stadio, che vogliono che chiamiamo Maracanã, è uguale a molti altri. Non c’è mana, non c’è magia, non c’è chimica. Non è neanche più uno stadio. È uno studio fatto per trasmettere uno spettacolo chiamato gioco del calcio. Il giorno che sono andato a vedere Brasile-Inghilterra, sebbene avessi comprato un biglietto piuttosto caro, mi sono accorto che i cartelli pubblicitari bloccavano la visuale della linea di porta alle prime 15 file. È solo un dettaglio, chiaro. Un altro dettaglio insignificante: le dimensioni del campo sono state ridotte, logicamente modificando lo stile di gioco che si pratica. Con tutto il rispetto, immaginate rimpicciolire il Colosseo. Ma il nuovo stadio ora ha centinaia di bar, negozi, due schermi enormi e un potente impianto acustico per la pubblicità, salottini lussuosi e centinaia di impiegati che non smettono di dire buongiorno e di chiedere se hai bisogno di qualcosa. Solo di riavere indietro il mio Maraca, ho voglia di rispondere.
Racconto infine del ricordo più bello che ho di tanti pomeriggi e tante serate della mia vita passate nel Maracanã. Quando sono arrivato all’età adulta, man mano che il tempo passava, gli amici prendevano impegni che non permettevano di frequentare lo stadio con la stessa regolarità. Stando così le cose, molte volte sono dovuto andare da solo al Maracanã a vedere il mio Flamengo. Ma l’abbraccio dopo il gol era una tradizione obbligatoria e indispensabile. Quando andavo da solo, cercavo di creare un ambiente favorevole con la gente che era in curva accanto a me. Così l’abbraccio al momento del gol era garantito. Non è mai mancato. Così come anch’io non ho mai mancato di mantenere la promessa di vedere sempre tutte le partite fino alla fine, indipendentemente dal risultato. Purtroppo, la mancanza di talento non mi ha permesso di compiere la promessa e il sogno di essere ala destra. Il principio di realtà mi ha obbligato a giocare da terzino.
(traduzione di Elisa Scaraggi)

Note:
[1] In italiano nel testo (n.d.t.).
[2] Si tratta di musiche generalmente allegre che si diffondono e si cantano durante il carnevale (n.d.t.).
[3] «Sono stato alla corrida a Madrid. Parará cim bum bum bum. Parará cim bum bum bum».
[4] «Sta arrivando l’ora».
[5] Il Partito dei lavoratori (Pt) fu fondato negli anni Ottanta dall’ex sindacalista Luiz Inácio da Silva, meglio noto come Lula. È al potere dal 2002, prima con Lula e ora con Dilma Rousseff (n.d.t.).
[6] Letteralmente, Generale. Si tratta di una parte dello stadio, senza sedili né copertura, da dove si assisteva alle partite in piedi, a livello del campo di gioco. Era frequentata da gente che non si poteva permettere di pagare un posto sugli spalti o in tribuna (n.d.t.).