Giuliano Aluffi, il Venerdì 13/6/2014, 13 giugno 2014
COSÌ VICINI COSÌ LONTANI
[Intervista a Marc Augé] –
Torino. «Un caffè mentre aspetto il professor Augé» dico al barista di piazza Carlo Alberto a Torino, luogo stupendo dove ormai da nove mesi ha preso casa l’antropologo dei «non-luoghi». Il barista è perplesso. «Augé, il professore che abita qui sopra» chiarisco. «Ahhh, Marc!» risponde lui, svelando la più apprezzata caratteristica degli antropologi, quella di entrare in relazione con chi hanno intorno, nonostante la globalizzazione tenda a spersonalizzarci e a estraniarci gli uni dagli altri, come Augé spiega nel nuovo saggio L’antropologo e il mondo globale (Raffaello Cortina, pp. 126, euro 15). Ricostruendo il filo delle sue esperienze in giro per il Pianeta, dagli indigeni Alladiani della Costa d’Avorio alle tribù Yaruro- Pumé del Venezuela, Augé ci mostra come i cambiamenti subiti dal mondo ci stiano dividendo sempre di più.
I cantori della globalizzazione ci avevano promesso emancipazione e maggiore mobilità sociale. Dove sono finite?
«Dipende dall’ampiezza del nostro sguardo. Al livello più globale, vedo un “mondo-città”, dove grazie a trasporti rapidi ed economici circolano di continuo persone, beni e informazioni. Ma restringendo lo sguardo alle città, si vedono delle “città-mondo” nelle quali emergono con drammatica chiarezza le disparità sociali: quartieri di lusso sempre più simili a città private e quartieri popolari sempre più degradati. Tra città e città lo scarto tra ricchi e poveri diminuisce: lo scarto economico e culturale tra Londra e Pechino oggi è inferiore a quello di 50 anni fa. Ma all’interno delle città, sia a Londra che a Pechino, lo scarto tra ricchi e poveri è aumentato».
E incontrarsi è sempre più difficile.
«Di nuovo: a livello globale succede che i turisti del Nord del mondo confluiscono in massa nei luoghi da cui gli abitanti del Sud del mondo cercano disperatamente di fuggire. A livello locale ci sono molti esempi. A Parigi è significativa la metropolitana di Châtelet-Les Halles, snodo che contiene in sé metropolitana, ferrovia, centro commerciale. I giovani delle banlieue lo usano come punto di ritrovo, ma, a differenza di tutti gli altri, non salgono quasi mai in superficie. È come se una barriera invisibile li trattenesse sottoterra. Quell’esclusione che nei decenni passati era assai evidente – penso ai palazzoni dormitorio del quartiere La cité des 4000 a La Courneuve, che si imponevano sul paesaggio come gli eco-mostri di Scampia – oggi magari lo è di meno, ad esempio a La Courneuve diversi casermoni sono stati abbattuti, ma sono sorte altre barriere altrettanto potenti».
Quindi nelle città vivono bene solo i ricchi?
«In realtà, i centri delle città contemporanee, tra imbellettamenti di facciata, vincoli, pedaggi e divieti, sono ormai spazi sempre meno a misura di qualsiasi cittadino e sempre più a misura di turista. In un certo senso il cittadino è scacciato ed espropriato dal turista – che per di più è un turista potenziale, prezioso per la promessa di ricchezza che porta con sé ma, appunto perché potenziale, anche astratto, qualcuno di cui non conosciamo ancora il volto. Pensi anche alla smania di etichettare sempre più luoghi come “patrimoni dell’umanità” dell’Unesco. Significa sottrarre a chi abita quei luoghi il controllo, per passarlo a un ente astratto, l’umanità in generale: significa compilare un catalogo che ha qualcosa di testamentario, perché è una lista che sembra pensata per chi verrà dopo di noi. Questa sostituzione del turista al cittadino è compagna della sostituzione del “consumatore” al “lavoratore” come punto di riferimento economico, sociale e anche politico: lo vediamo nella contrapposizione tra i lavoratori dei taxi e i consumatori che li vorrebbero veder sparire sostituiti da varie app. Ma tutto questo passa obbligatoriamente per una semplificazione, un impoverimento culturale del mondo».
Qualche esempio?
«Pensiamo ancora al metrò di Parigi: la stazione Louvre-Rivoli mostra, appesi alle pareti, alcuni esempi d’arte che sono, per così dire, il “riassunto” di ciò che il viaggiatore potrebbe trovare al Louvre se solo uscisse dalla metropolitana. Ma per la maggioranza di chi usa il metrò basta questa piccola evocazione: non sentono davvero il bisogno di salire a visitare il Louvre. Lo stesso avviene in quei non luoghi che sono le autostrade: ogni autogrill espone i prodotti tipici regionali e i souvenir del territorio che l’automobilista potrebbe trovare se uscisse dall’autostrada. Ma non lo fa: chi viaggia fruisce solo di un riassunto semplificato di luoghi che non visiterà mai. Si abboffa di stereotipi ed etichette – Bologna/tortellini, Roma/Colosseo, Venezia/gondola - e non ha più vero appetito per la realtà».
Però non tutti sono a loro agio in questo mondo narcotizzato dal consumo: poveri, precari, disoccupati sono sempre più numerosi e reclamano diritti.
«In realtà lo spettacolo del consumo seduce anche chi vi si oppone. Pensi al colossale Mall of America in Minnesota, che è il centro commerciale più visitato del mondo, e agli ipermercati e soprattutto agli outlet vicini alle nostre città: ormai sono dotati di cinte murarie, torri e portici che li rendono simili a città vere, anche se poi, di notte, non sono abitati da anima umana. Sono città del “troppo pieno”, di giorno straripanti di consumatori, che di notte diventano città del “troppo vuoto”, perché prive di abitanti. Paradossalmente chi non ha soldi per consumare visita lo stesso questi luoghi. Vuole ugualmente partecipare alla fantasmagoria del consumo, anche solo come spettatore, o come Tantalo che si impone il suo supplizio. E poi le lusinghe del consumo s’insinuano dappertutto: gli indios brasiliani in questi giorni manifestano contro i Mondiali di calcio per opporsi a restrizioni governative sulle terre in cui vivono. Si dipingono il volto e il corpo con colori tribali e agitano lance e frecce contro la polizia, ma nelle foto molti di loro hanno scarpe da ginnastica di multinazionali che usano lavoro di altri infelici che abitano dall’altra parte del mondo».
Un effetto della crisi economica nei Paesi occidentali è che si acquistano sempre meno beni durevoli, come case o automobili, mentre crescono le modalità di possesso temporaneo, di affitto: un esempio in tutte le città è il bike sharing, ma anche l’affitto di automobili, oggi, è un modello in espansione… «In realtà si tratta di un semplice spostamento dei diritti di proprietà verso chi acquista in massa questi beni per poi affittarli agli altri. Non è una sorta di benigna liberazione dai vincoli materiali, come potrebbe sembrare, o come ideologicamente viene dipinto: si tratta al contrario di un accentramento di risorse e mezzi di produzione, di un rafforzamento delle barriere tra chi può e chi non può. Di un fattore di diseguaglianza in più».
Giuliano Aluffi, il Venerdì 13/6/2014