Marco Cicala, Il Venerdì 13/6/2014, 13 giugno 2014
MANI DI FORBICE
Roma. Via della Ferratella è un nome da stornello. E, per quanto corpulento, l’edificio non assomiglia a una Lubjanka né a un palacio de la inquisición. Poco sinistro, semmai torpidamente ministeriale, sonnecchia a due passi dal Laterano. Eppure, lungo tutto un evo, queste mura custodirono le segrete stanze, i corridoi dei passi perduti, gli archivi maledetti, insomma il Sant’Uffizio del cinema italiano nell’âge d’or. Come nella mala, dicevi Ferratella e chiunque fosse del giro capiva. Capiva: tagli, intoppi, avvocati, faccendieri, anticamere, patteggiamenti, lobby. Rogne. Che però potevano diventare affaroni. Si chiamava Commissione per la revisione cinematografica. E si chiama così anche adesso che a dire cinematografo resta solo qualche avvenente bisavolo.
Era la famosa censura. Ed ebbe domicilio qui. Nelle segrete del civico 51 si vivisezionavano script e bobine. Con gli occhi puntati sul film, ma la mente costantemente rivolta alla «fragile sensibilità dell’età evolutiva» – si stabilivano i divieti. A seconda della raffinatezza del controllore, si mozzava a colpi di machete, trinciapollo, bisturi. Intanto i fattorini recapitavano suppliche di clemenza, dichiarazioni di abiura relative a tale o talaltra pretesa sconcezza. Tutto in un alternarsi di contrazioni e decontrazioni, spasmi repressivi e folate liberanti.
Ce l’hanno tanto raccontata in forma di epos romantico e dunque passabilmente manicheo: torvi bigotti vs. antiproibizionisti angelici. Ma, ravanando nei documenti, scopri che come tutte le grandi battaglie anche quella sulla censura ebbe un cast composito: un’avanguardia di martiri – più o meno celebri – immersa in un timballo picaresco di affaristi, mestatori, sicofanti. Però alla fine l’effetto complessivo è pur sempre da romanzo.
Per rendervene conto andatevi a vedere Cinecensura, la maxi-mostra curata da Cineteca nazionale e Mibact. Comincia oggi. E sta tutta sul web: cinecensura.com. Articolata per aree tematiche (sesso, politica, religione, violenza), è un giacimento di spezzoni video, manifesti, interviste, cinegiornali, avvincenti scartoffie. Partendo dal 1913, quando Giolitti vara le prime leggi moral-fiscali per vigilare sull’arte n. 7 e spremerne quattrini. Poi il Ventennio coi suoi scontati rigori; il dopoguerra delle spellate verità neorealiste; i Cinquanta tutti masse e pudore... Ovunque clicchi sgorga una storia, un disputa, un ostacolo, un inguacchio per dribblarlo. Non esiste venerato maestro che prima o poi non abbia intruppato contro il paraurti della Commissione. Da Rocco e i suoi fratelli alla Dolce vita, dai Racconti di Canterbury alla Grande abbuffata, da Ultimo tango al Portiere di notte: le causes célèbres ci sono tutte. Ma senza trascurare quelle meno chiassose o dimenticate.
Quanti sanno, ad esempio, che l’oscuro Odissea Nuda (1961, regia di Franco Rossi) fu tra i film più sottoposti a pestaggio? E dire che si presentava con una trama mitissima, tra Osho e Gauguin. Amareggiato dalla civiltà, un intellettuale approda a Papeete con un proposito che non si potrebbe più fermo: «Sono venuto qui per vivere come un albero». Facile a dirsi. Travolto dalle indolenti sensualità polinesiane, lui fallirà. Ma in quella desolata parabola, i censori non videro che esotismo porcello. Qualche audacia, in effetti, affiorava. «Sia cambiata la didascalia sovraimpressa: Sai che hai delle belle cosce?». Via anche Asciugati questo bel sederino. Per tacere della scena coi due distesi sul letto, reduci dall’amore: «Sia cambiata la battuta in cui la ragazza dice: Ancora fino al punto in cui l’uomo esclama: No». Troppo, francamente troppo in epoca di monocolori Fanfani-Tambroni.
Se non fosse che è proprio quello il momento nel quale il gioco del proibire, dello schivare, del contrattaccare, comincia a farsi davvero finissimo. A diventare grande boxe. «Perché da lì, fino agli anni 70, il cinema è un po’ più avanti rispetto alla società» sintetizza Emiliano Morreale, conservatore alla Cineteca nazionale e curatore della mostra. È nello scarto tra arte e costume che si scava il ring, lo scontro sui divieti. Come funzionava? All’incirca così.
Individuo alfa di ogni scandalo era il leggendario denunciante. Cioè uno che andava al cinema tutto giocondo, ma ne usciva diverso: peggiorato, offeso, smarrito nei sensi però cartesiano nell’indignazione. Tanto da rivolgersi alla Procura. Denunciante poteva essere un singolo, sovente protetto dall’anonimato, o un alveare di soggetti irritabili: circoli, leghe, comitati. A quel punto, la magnifica pirotecnia della censura era innescata. Tra i denuncianti isolati, è rimasto impigliato negli annali il caso dell’uomo che voleva trascinare in giudizio il Decamerone di Pasolini senza averlo visto, ma per sentito dire. A dirgliene tutto il male concepibile era stato un amico suo: «È un grande invalido dell’ultima guerra e va al cinema tutti i giorni, non pagando niente. Ieri mi ha detto che ha visto il film. Il più schifoso e voltastomaco di tutti». Intanto, da Milano s’erano levati altri barriti («Mai filma più sconcia, ributtante, più pervertitrice»). A Lucera, Foggia, gli abitanti «pensosi e uniti» invocavano il sequestro preventivo. Mentre a Napoli si lottava «allo scopo di salvaguardare lo stato di salute di spettatori inferiori agli anni 50». E si difendeva la sacralità di un coito che in quegli esposti – forse suggestionati da reminiscenze risorgimentali – diventava goito.
A raccogliere lo sdegno erano magistrati elettrici che si chiamavano Pietro Trombi (Milano), Francesco Novello (Lodi), Vincenzo Salveri (Palermo) e sopra tutti Donato Massimo Bartolomei, il quale passando dalla Procura di Catanzaro a quella dell’Aquila si meritò l’epiteto di Torquemada d’Abruzzo. Per evitarne il placcaggio, si ricorreva essenzialmente a uno stratagemma. La legge del 1962 – cucinata dal centrosinistra – prevedeva che a decidere su un film colpito da denuncia fosse la magistratura del posto in cui la pellicola era stata proiettata per la prima volta. Se il foro competente diceva no.