Gianni Perrelli, L’Espresso 13/6/2014, 13 giugno 2014
PIÙ CHE IL CALCIO POTRÀ IL PETROLIO
La folla di ingegneri che si affanna nelle acque dell’oceano intorno agli impianti di trivellazione ha un altro Mondiale da disputare. L’obiettivo, entro cinque anni, è quello di spingere il Brasile al quarto posto fra le potenze petrolifere del pianeta. Nelle piattaforme, dall’aspetto di cittadelle spaziali disseminate al largo di Rio e Santos, si lavora a ritmi massacranti. Anche in questi giorni in cui l’attenzione generale è calamitata dall’orgia mediatica del calcio che torna a casa, nel Paese che ha vinto cinque Coppe del Mondo e che lo vive come una religione.
La crescita impetuosa del Brasile durante gli otto anni del governo Lula (2002-2010) è lievitata soprattutto per la spinta delle enormi risorse energetiche. La scoperta del giacimento oceanico pré-sal, forse il più grande della Terra per le dimensioni delle riserve petrolifere, ha schiuso illimitate prospettive di ricchezza. Ma la difficoltà di estrazione del greggio, depositato a sette chilometri di profondità sotto una spessa cappa di sale, è un po’ la metafora di un gigante che a tutti i livelli fatica a esprimere in pieno le sue potenzialità. L’ascesa del Pil è crollata durante il quadriennio di Dilma Rousseff da oltre 7 per cento a poco più del 2 per il calo nelle esportazioni delle materie prime. Il Mondiale che dovrebbe fare da cassa di risonanza ai successi della sesta economia del pianeta parte un po’ in sordina: fra la corruzione che sottrae allo Stato ingenti capitali, tensioni della piazza che reclama migliori condizioni di vita, una stima di benefici inferiori a quelli tanto attesi da una manifestazione sulla quale sono stati investiti trenta miliardi di euro. E dal bacino petrolifero del pré-sal si estraggono meno di tre milioni di barili al giorno. Una quota al di sotto delle originarie tabelle di marcia. Un motivo di nervosismo per la Petrobras, il colosso petrolifero di Stato che impiega quasi 90 mila dipendenti.
A guidarla da un paio d’anni è Maria das Graças Foster, un’energica signora di 60 anni pupilla della Rousseff, con una biografia che è un manifesto del sogno brasiliano. Dalle baracche dell’emarginazione ai palazzi del potere. Il secondo cognome è quello del marito, di origini britanniche. Nata in una famiglia povera, ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in una favela di Rio. Per mantenersi gli studi raccoglieva per strada lattine e cartoni che riciclava alle aziende. Si è laureata in ingegneria chimica ed è stata assunta subito dalla Petrobras. In 34 anni ha scalato tutte le posizioni aziendali fino a entrare nel 2012 nel consiglio di amministrazione. Pochi mesi dopo la Rousseff, che è un’esperta del ramo (sotto Lula era stata ministro dell’Energia), l’ha nominata amministratore delegato. I suoi avversari la accusano di ambiguità. Da un lato si è fatta largo con metodi duri e autoritari, tagliando rami improduttivi e procurandosi molti nemici. Dall’altro sarebbe troppo prona ai voleri del governo, una sorta di protesi della Rousseff, che ne ridurrebbe l’autonomia.
Intorno alla Petrobras, la prima azienda nazionale, infuria da anni la tempesta di un megascandalo per una delle più fallimentari operazioni dell’industria brasiliana. L’acquisizione per circa un miliardo e mezzo di euro di una raffineria a Pasadena (Texas), il cui valore si sarebbe oggi ridotto a 150 milioni. Una storiaccia di corruzione e mazzette su cui si è avventata l’opposizione di destra per screditare il governo di centrosinistra. Una battaglia politica senza tregua che crea forti scossoni ai vertici dell’ente petrolifero. E rende precaria la tenuta della Foster, che “Forbes” inserisce nella lista delle 100 donne più importanti del mondo, per i suoi stretti legami con la Rousseff.
Il petrolio stimola tanti sguardi e tanti appetiti perché è la scommessa del domani. Ma la forza economica del Brasile, la leva che grazie alle materie prime ha permesso a Lula di portar fuori dalla povertà 40 dei 200 milioni di cittadini e di elevarne altri 40 al rango di classe media, poggia anche su altri settori. Il Paese è all’avanguardia nell’industria mineraria, nella siderurgia, nell’aeronautica, nelle costruzioni, nell’agricoltura (caffè, soia, canna da zucchero, arance) e nelle tecnologie agroalimentari, nell’energia eolica e nell’idroelettricità, nella produzione automobilistica e in quella dei semiconduttori. La Vale, seconda potenza mondiale nel campo dell’estrazione di minerali, è presente in 14 Paesi con 45 mila dipendenti e fattura più negli Stati Uniti che in Brasile. La sua fama era legata un tempo alle miniere d’oro di Serra Pelada, in Amazzonia, che attirava avventurieri senza scrupoli e dannati che lavoravano in condizioni disumane in cerca dell’Eldorado. Una stagione di transumanze, sacrifici, illusioni e disgrazie immortalata dall’obiettivo del grande fotografo Sebastião Salgado. Ora che la miniera ridotta a un malsano acquitrino è stata venduta a una multinazionale straniera, la Vale ha puntato al primato nel campo dei materiali di ferro. Sulla scia, la Gerdau è diventata nella siderurgia uno dei gruppi più forti nell’intero continente americano. Nell’aeronautica la Embraer, che costruisce aerei di piccolo e medio raggio, è la terza ditta mondiale del settore dopo la Boeing e il consorzio dell’Airbus. Lo spessore della Fiat brasiliana, già leader nel mercato nazionale di auto, crescerà notevolmente con l’imminente apertura di un secondo stabilimento nel Pernambuco, sul quale sono stati investiti quasi 5 miliardi di euro. Per l’etanolo, con il 30 per cento della produzione, il Brasile rimane il leader mondiale.
Il sistema-Paese, pur tra forti scossoni, regge grazie allo sfruttamento più intelligente delle risorse. «Materia prima più materia grigia», è lo slogan con cui Lula sintetizzava la formula dello sviluppo. Il problema è che la crescita economica non è stata accompagnata da adeguati interventi nelle infrastrutture e nel terreno sociale. Trasporti, istruzione e sanità richiamano ancora il terzo mondo. Per gli economisti ci vorranno almeno vent’anni perché la classe media raggiunga gli standard di vita dell’Europa.
La vetrina mediatica del Mondiale ha esteso a tutti i grandi centri metropolitani l’area delle proteste. L’inflazione (oltre il 6 per cento) concede una tregua, ma gli indicatori economici sono in affanno al punto da costringere Lula a strigliare pubblicamente il ministro del Tesoro Arno Augustin. Ma, più che rabbia, il mood che emerse l’estate scorsa durante i moti della Confederations Cup, si percepisce stavolta una tensione trattenuta dall’orgoglio di ospitare un evento così importante. Il governo batte molto sul tasto del nazionalismo. Il politologo Merval Pereira afferma che la Rousseff, infischiandosene della contraddizione ideologica, fa proprie le tesi del commediografo conservatore Nelson Rodrigues, scomparso nel 1980, che definiva il Brasile «il Paese delle scarpette da calcio». Nel senso che per le masse il pallone è considerato figlio del popolo, un simbolo dell’identità nazionale. Negli anni Sessanta Pelé era asceso agli altari. Senza di lui, scrivevano gli aedi, il Brasile avrebbe perso il 30 per cento del suo appeal. Sulla scia dell’esaltazione patriottica si sono tuffati oggi anche fior di intellettuali. Lo scrittore Sergio Rodrigues ha organizzato a Rio, all’Accademia carioca delle lettere, nientemeno che un dibattito sul dribbling nella letteratura brasiliana. E la Lega nazionale degli editori ha promosso nella sua sede un convegno su calcio e cultura.
Si fa strada lo sforzo di smentire con un’organizzazione del Mondiale all’altezza delle aspettative le forti perplessità che si sono addensate nell’ultimo anno. Le zone critiche delle metropoli sono state bonificate. La polizia militare, quella federale e le forze dell’ordine locali durante le partite sigilleranno il territorio fino a cinque chilometri dagli impianti. A Rio, sul tetto di un edificio di 15 piani a 600 metri dal Maracanà, la Marina ha installato una batteria di missili per la difesa dello spazio aereo. All’interno degli stadi provvederanno alla sicurezza i vigilantes della Fifa. Un esercito di 33mila volontari presterà capillarmente la sua opera.
L’atmosfera generale nelle grandi città comincia a sintonizzarsi. Miriadi di bancarelle con le magliette del Brasile. Sempre più macchine da cui sventola la bandiera nazionale. Appuntamenti culturali a pioggia a beneficio dei turisti. Le previsioni parlavano di 600 mila visitatori dall’estero. Saranno probabilmente di meno a causa dei prezzi elevatissimi degli alberghi e delle enormi distanze fra le 12 città che ospitano la manifestazione. Le località più gettonate sono Rio (per le bellezze naturali) e Recife (scelta da molti italiani per il fatto che l’Italia giocherà due delle tre partite del girone a gruppi nel Nord Est). Si calcolano introiti per 350 milioni di euro. Ma si teme che il Mondiale non sia un volano sufficiente per rilanciare l’economia. La Germania, nel 2006, secondo l’economista inglese Neil Shearing, conobbe solo un lieve e temporaneo incremento del Pil. Il Sudafrica nel 2010 registrò addirittura un rallentamento.
Ma al di là dei diagrammi macroeconomici la riuscita per il Brasile sarà condizionata dai risultati della sua Nazionale, obbligata a lavare l’onta del ‘50 (quando al Maracanà fu sconfitta nell’incontro conclusivo dall’Uruguay) e a rispettare il pronostico generale secondo cui conquisterà la sua sesta Coppa del Mondo. Le vittorie scateneranno il Carnevale fuori stagione. Le sconfitte precipiteranno il Paese nella depressione.
Al successo (o al flop) di immagine potrebbe essere legato anche il futuro della Rousseff, che si ricandida alla presidenza nelle elezioni del prossimo ottobre. Nei sondaggi è in testa, ma negli ultimi quattro mesi ha perso dieci punti: dal 44 per cento al 34. Nello stesso arco di tempo il conservatore Aécio Neves è passato dal 16 al 19. Il margine resta di sicurezza, ma è difficile che la Rousseff venga riconfermata al primo turno. In un Paese così passionale e così innamorato del pallone non è tanto strano che trovi credito un’ipotesi surreale: se il Brasile perde, va fuori anche Dilma.