Gianfrancesco Turano, L’Espresso 13/6/2014, 13 giugno 2014
L’UOMO DEL MOSE
[Colloquio con Piergiorgio Baita] –
Tutti contro tutti. Dopo venticinque anni di banchetto, le dighe mobili di Venezia non hanno tenuto alla pressione dell’acqua alta giudiziaria e adesso si salvi chi può, a costo di buttare a mare il vicino di remo. L’ingegner Piergiorgio Baita, da veneziano abituato al mareggio, ha giocato d’anticipo. L’ex presidente della Mantovani di Padova, capofila del Consorzio Venezia Nuova insieme alla Fincosit Grandi Lavori della famiglia veronese Mazzi, ha come riparo 97 giorni di carcere a Belluno e una condanna appena patteggiata: ventidue mesi per i fondi neri gestiti dalla Bmc di San Marino. Essendosi sacrificato per tempo, Baita è rimasto fuori dalla retata che la scorsa settimana ha coinvolto l’ex governatore e ministro Giancarlo Galan, il sindaco Giorgio Orsoni, l’eurodeputata uscente Lia Sartori, il costruttore Alessandro Mazzi, l’assessore regionale Renato Chisso, il generale di corpo d’armata a riposo Emilio Spaziante, il finanziere Roberto Meneguzzo e una trentina di altri indagati.
Adesso Baita è il primo testimone d’accusa nell’inchiesta che ha travolto l’establishment lagunare, che punta sulle coperture del Palazzo romano e arriva fino agli appalti di Expo 2015, come le inchieste de “l’Espresso” avevano anticipato nel pieno disinteresse dei politici. Gli stessi che ora invocano tempeste di fuoco sui corrotti.
Il colloquio con Baita, nell’ammezzato di un albergo di Mestre, è ricco di spunti, di interpretazioni soggettive, di qualche omissione significativa e di un’ossessione personale: scaricare le colpe maggiori su Giovanni Mazzacurati, storico presidente del Consorzio arrestato a luglio del 2013, quattro mesi dopo Baita. Un rapporto finito male dopo quarant’anni di lavoro in comune. Oggi Mazzacurati ha 82 anni, è stanco, provato dalla morte del figlio Carlo, il regista. Baita porta i suoi 65 anni alla grande. Ha ancora un futuro da giocarsi e un’esperienza da far valere sul mercato tanto che, pochi mesi fa, si è aperto una boutique di consulenza in società con moglie e figlio: Studio Impresa, si chiama, e ha sede nel sestiere veneziano di Dorsoduro.
E poi c’è il suo 5 per cento di azioni della Mantovani, comprato nel 2005 a prezzo molto vantaggioso per suggellare il patto con Romeo Chiarotto, padrone del gruppo di costruzioni (vedi intervista a pag. 42). L’accordo prevedeva un lock-up (divieto a vendere) di dieci anni. Alla fine del 2015, dunque, si vedrà se la buonuscita di Baita vale 5 milioni, 10 oppure 20. «Chi può dire», sorride l’ingegnere che i finanzieri chiamavano in codice "Chalet". «Magari tra un anno il valore dell’impresa sarà zero». La preoccupazione, umanamente comprensibile, appare tecnicamente infondata. A parte le dighe veneziane, Mantovani ha ancora un portafoglio lavori colossale, un patrimonio netto in grande salute, riserve di utili invidiabili e profitti futuri garantiti.
Baita difende la sua quota di prosperità. Ha lavorato duro e con tutti i mezzi per costruirla, come Jean Gabin nel film "Grisbi". Ma il personaggio di Gabin rinunciava al bottino per aiutare il socio di sempre. Qui a Venezia il sentimentalismo sta a zero.
TECHNITAL E LE SUE PARCELLE
Il meccanismo del Mose è ormai noto. I soldi arrivavano puntuali dallo Stato al concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova (Cvn), composto da soci privati e incaricato dei lavori. Il Consorzio, con rischio di impresa e controlli pari a zero, spendeva e spandeva (da 1,6 miliardi previsti a 5,6 miliardi di euro effettivi). Le imprese azioniste (Mantovani, Mazzi, Condotte, cooperative) si gonfiavano come anatre da foie gras grazie a margini sui lavori che raggiungevano il 50 per cento, cinque volte la norma. Mantovani cresceva più di tutte: 25 miliardi di lire di ricavi a fine anni Novanta, oltre 400 milioni di euro adesso, in massima parte incassati dal Consorzio.
A parte le opere, Baita ha calcolato che il Cvn, fra fondi neri e fatture più o meno indispensabili (sponsorizzazioni, collaudi, consulenze, progetti, pubblicità, catering, alberghi e gite in mototaxi) abbia distribuito 100 milioni di euro ogni anno dal 2003.
«Ora, se la Mantovani», dice Baita, «aveva un terzo del Cvn, perché si parla solo della Mantovani come corruttrice? Io avevo la sponda a San Marino. E gli altri? Per esempio la Technital del gruppo Mazzi, che ha preso anche la progettazione della Pedemontana lombarda, ha incassato dal Consorzio tra 150 e 200 milioni di euro solo per le opere alle bocche di porto. Mazzi era il tramite fra Mazzacurati e Gianni Letta, era quello che li faceva incontrare a cena a Roma, nella casa dove hanno trovato tre quadri del Canaletto e uno del Tintoretto. E non solo le parcelle Technital non si sono mai potute discutere ma nel 2004, quando siamo entrati nel Cvn comprando dall’Impregilo dei Romiti, Mazzacurati ci ha ordinato di girare una parte delle azioni a Mazzi, in modo da essere su un piano di parità. Se no, non ci faceva entrare».
Baita conosce la leggenda nera riguardante Italholding, la capogruppo dei Mazzi intestata a due fiduciarie (Spafid e Prudentia): la quota di minoranza sarebbe stata girata di volta in volta al politico di riferimento dell’opera. «Di sicuro a ogni spreco», dice, «corrispondeva una fetta di consenso in un settore: politici, amministratori, quei tecnici che ti compri con quattro promesse di carriera. La settimana scorsa hanno messo agli arresti un ingegnere, Luigi Fasiol, per un incarico di collaudo su mia segnalazione. Con questo metro dovrebbero arrestare parecchi alti dirigenti ministeriali, manager pubblici e giudici contabili. Invece non ho visto nulla sui 26 milioni di euro in collaudi dati ai vertici dell’Anas, a Pietro Ciucci, a Vincenzo Pozzi, a Pietro Buoncristiano o a ex magistrati come Vincenzo Fortunato. Tutta gente che andava a chiedere l’incarico direttamente al Cvn, anziché al magistrato delle acque, rappresentante del governo».
ALGHE NEL MAR CASPIO
Sul ruolo del Consorzio, Baita dà un’analisi lineare, ingegneristica, rafforzata dalla sua prima disavventura giudiziaria, l’arresto nel 1992. «Dopo Tangentopoli, il Cvn ha avuto il merito di sollevare i politici dal rapporto diretto con gli imprenditori. Questo sistema ha fatto scuola con la nascita di varie società di scopo (Ispa, le società regioni-Anas, la stessa Sogin). Sono pubbliche, non devono dare utili ma hanno un’impronta di gestione privatistica, assumono chi vogliono. Il successore di Mazzacurati, il suo ex ufficio stampa Mauro Fabris, ha detto che taglierà i 270 dipendenti. Li sta solo spostando sulla controllata Thetis, comprata da Mazzacurati per parcheggiare gente, fra cui l’ex segretaria di Galan Claudia Minutillo, e per studiare la proliferazione dell’alga nel Mar Caspio spendendo un milione all’anno». L’idea fondante del sistema Cvn, alla fine, è che tutto si poteva fare e che il sistema poteva durare per sempre, oltre il completamento delle dighe mobili, previsto fra due anni. Finiti i costi dell’opera, sarebbero iniziati i costi di gestione, manutenzione e struttura. Secondo i calcoli di Baita, possono bastare 20 milioni all’anno o possono non bastarne 60, se ci sarà il sovraccarico di manager e funzionari con relativi stipendi d’oro. Altri, meno ottimisti, hanno parlato di 150 milioni di euro all’anno. L’importante è che si evitino le gare, come sono state evitate per tutti i 25 anni del Mose, salvo bandi per poche decine di milioni in tutto. Una repubblica degli affari autonoma, insomma, con il beneplacito degli organi dello Stato.
«C’è stata una gara a trasferire competenze dai vari ministeri al Consorzio, che aveva le mani più libere. Poi bastava che il politico si presentasse da Mazzacurati, che dicesse: queste sono le mie aziende. E il gioco era fatto. La cupola dell’Expo, dove si è rivisto il rapporto diretto fra politici e imprenditori, io la chiamo cupoletta. Ha truccato un paio di gare. Il guaio vero dell’Expo è il tavolo chiuso delle imprese intorno a Ispa, cioè alla Regione, e a Expo 2015, cioè il Comune di Milano. La disavventura della Mantovani sulla piastra lo spiega bene».
CHI DI TAVOLO FERISCE DI TAVOLO PERISCE
Se c’è qualcosa per cui Baita merita la fama, è l’organizzazione di un tavolo di appalti chiuso a Venezia e nel Veneto: Mantovani, Fincosit, Condotte, alcune cooperative, con l’appoggio di gruppi finanziari come la Palladio di Meneguzzo, Est Capital di Gianfranco Mossetto e la Save di Enrico Marchi. Pochissimo spazio per gli altri. Baita, però, nega l’addebito. Dice che la Mantovani, al di fuori del Mose, ha applicato le regole del mercato.
Nella vicenda di Expo 2015, Baita si presenta come vittima e denuncia, proprio lui, un club esclusivo degli appalti in Lombardia. La Mantovani lo avrebbe messo in crisi vincendo la singola gara di maggiore valore dell’Expo, quella sulla piastra, a luglio del 2012. «Abbiamo partecipato per caso, in sostituzione di una società francese in crisi e su richiesta del Coveco (la coop che avrebbe finanziato Orsoni e Sartori, ndr), nostra socia nel Cvn».
Mantovani vince la gara con un ribasso enorme (41,8 per cento), forse anomalo, di certo basato sulla speranza - che negli appalti in Italia è una certezza - di risalire sul prezzo in seguito. Fatto sta che le imprese del "tavolo lombardo" e l’Ispa la prendono male: pressioni, minacce, inviti a mollare la presa. «Prima che arrivassimo noi della Mantovani, nell’associazione che puntava alla piastra c’era già con una piccolissima quota la Ventura, che lavorava da anni a Milano per la manutenzione dei parchi del Comune. Un anno prima della gara abbiamo mandato la documentazione in prefettura. Ci hanno risposto a contratto firmato per dirci che l’informativa antimafia era sfavorevole. Abbiamo espulso subito la Ventura ma siamo finiti sui giornali. Cmc, nei cantieri vicini al nostro, ha avuto sei associate con problemi di antimafia e nei lavori ci sono state una ventina di imprese interdette. In quanto ai miei 271 contatti telefonici con Angelo Paris, allora numero due dell’Expo, si spiegano perché seguivo la coop Giotto e perché lui cercava un posto dopo l’esposizione».
Una vena polemica con i prefetti affiora anche dal colloquio con Romeo Chiarotto (vedi box nella pagina accanto). Eppure la vicenda Mantovani-Expo è stata gestita quando la prefettura di Milano era guidata da Gian Valerio Lombardi, molto vicino alla famiglia Ligresti e molto sollecito nel fornire il passaporto nuovo all’olgettina Marysthell Polanco. Lombardi, che è stato fra i papabili del centrodestra per le elezioni a Padova, ha avuto un ruolo importante dopo l’arresto di Baita a febbraio 2013. «Ha chiamato Chiarotto e gli ha spiegato che l’azienda rischiava l’amministrazione controllata. Il mio successore, l’ex questore Carmine Damiano, che si occupa specificamente dell’Expo, è stato suggerito da Lombardi».
LA MIGLIORE DIFESA È L’ATTACCO
Il resto del colloquio è autodifesa d’ufficio. Baita dice che a Galan ha solo pagato l’architetto e che lui gli ha fatto solo perdere lavori; che Lia Sartori era troppo amica di Pierangelo Daccò, il ras della sanità lombarda, per favorire lui; che Chisso pensava solo a ricollocarsi con i leghisti Flavio Tosi e Luca Zaia; che il primo incarico alla cartiera sanmarinese Bmc lo ha dato il Cvn, non lui. Parla di due sindaci che l’hanno contrastato, Orsoni sull’Arsenale e Massimo Cacciari ogni volta che ha potuto. Per metterli in cattiva luce dice che i due erano in buoni rapporti con Mazzacurati e si dimentica di citare Paolo Costa, un altro ex sindaco di centrosinistra con il quale Baita è andato piuttosto d’accordo. Tutto parte del gioco, del bellum omnium contra omnes in versione lagunare. E, per concludere, filosofia d’impresa. «Bisogna finanziare il servizio, non l’opera. Lo Stato deve pagare per ogni anno che Venezia evita l’acqua alta, non per i cassoni o le cerniere. Scommetto che così il Mose non sarebbe costato il triplo». Se lo dice lui.