Guido Olimpio, Lorenzo Cremonesi, Danilo Taino, Corriere della Sera 13/6/2014, 13 giugno 2014
DRONI E MISSILI USA VERSO BAGDAD MA L’IRAN È GIÀ SCESO IN CAMPO [3
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WASHINGTON — Le notizie da Oriente raccontano che l’Iran si è mosso subito. Due battaglioni dell’Armata Qods, l’apparato speciale dei pasdaran, sono arrivati di gran fretta a Bagdad per assistere l’amico iracheno. O magari c’erano già. Sono di casa. Insieme a loro i Saberin, membri di un’unità scelta. Li chiamano «coloro che hanno pazienza», ma vista la situazione c’è poco da aspettare. Forse è anche per questo che è stato avvistato il generale Qasim Suleimani, il capo in testa della Qods, l’uomo delle missioni impossibili.
La reazione iraniana è stato certo più veloce di quella americana. Tanto che i repubblicani hanno accusato Barack Obama di «essersi fatto un sonnellino sull’Iraq». Ma è anche vero che è molto difficile agire. E lo è ancora di più quando non si ha alcuna voglia di farlo. Con il solito dilemma del presidente, stretto tra la volontà di non riaprire la pagina delle guerre e la responsabilità di far fronte alla crisi.
Bagdad — come hanno scritto i media Usa — ha chiesto per la seconda volta in un anno raid aerei statunitensi. Magari affidati ai droni, quasi che fossero la soluzione magica ad ogni minaccia estremista. Un appello accompagnato dall’apertura dello spazio aereo agli Stati Uniti. Washington ha preso tempo. Mercoledì ha rifiutato di mandare i suoi caccia. Ieri pomeriggio, il presidente ha aperto nuovi scenari. Infatti non ha escluso «alcuna opzione», ha parlato di possibili «azioni militari nel caso la sicurezza nazionale sia a rischio», ha promesso ulteriori aiuti ed ha ribadito che non vi sarà alcun impiego di forze terrestri. Il tutto all’interno di consultazioni per «una robusta reazione regionale». Dunque i blitz aerei che fino a 24 ore fa erano stati esclusi ora paiono più vicini. E molto dipenderà dall’evoluzione degli eventi.
La Casa Bianca ha intanto indicato una strada precisa: tocca all’esercito iracheno prendersi le sue responsabilità, così come serve una soluzione politica che coinvolga sunniti e sciiti. Un’affermazione che si porta dietro una verità. L’America ha speso 25 miliardi di dollari per armare e addestrare le forze armate di Bagdad. Ed ecco il risultato. Un disastro. Ancora peggio quello politico per colpa di Bagdad. Dunque l’amministrazione Usa prevede di «assistere» l’Iraq con le solite formule quando non si vogliono mettere scarponi sul terreno. Intanto con l’incremento delle forniture militari. Certo non sarà possibile far arrivare subito gli F16 e gli elicotteri d’attacco Apaches, ma è possibile che il Pentagono mandi altri missili terra-aria. In particolare altre dotazioni di Hellfire che gli iracheni usano a bordo di bimotori Cessna modificati.
Non meno importante il supporto dell’intelligence. I droni presenti nelle basi turche, i Global Hawk schierati a Sigonella (Sicilia), insieme a voli spia e satelliti possono fare da vedette avanzate per monitorare la travolgente cavalcata jihadista. Garantiscono informazioni vitali ad un esercito cieco e disorganizzato. All’Iraq servirebbero coordinatori e apparati di comunicazione. La catena di comando non ha funzionato, molti ufficiali di nomina politica sono scappati al primo petardo, molte unità non erano in grado di comunicare e avevano pochi viveri. Le immagini diffuse dall’Isis mostrano intere caserme abbandonate, con tank e blindati lasciati con «le chiavi nel cruscotto». Per certi aspetti un mistero. Nella capitale statunitense sono apparsi commenti dove si parla di «sorpresa» per la sconfitta dei governativi. Analisi bilanciate da altre analisi: gli addetti ai lavori sapevano della scarsa preparazione dei soldati di Bagdad. Non meno gentili i giudizi sui generali, almeno tre, ritenuti responsabili della disfatta. Al punto che gli iracheni pensano alla costituzione di una milizia popolare che sostituisca plotoni di militari infedeli o deboli. Uno schema già adottato da Bashar Assad con l’assistenza di Hezbollah e pasdaran iraniani.
Washington ha poi intensificato i contatti con gli amici. Magari partendo dai sauditi, con i loro agganci nella nebulosa islamista. A seguire la Giordania, che ha subito rafforzato il dispositivo militare lungo il confine ed ha mobilitato i suoi servizi. Le basi giordane possono poi diventare fondamentali per sostenere le probabili incursioni aeree. E poi i rapporti con i peshmerga curdi iracheni, unico schieramento compatto e motivato. Quella del Kurdistan è una enclave dove in passato hanno operato con successo francesi, britannici e israeliani. Affari e intelligence per tenere d’occhio il Sud, ma anche il vicino Iran.
Torniamo così da dove siamo partiti. Teheran ha mezzi e interessi (enormi) per contenere la spinta dell’Isis. Una leva che potrebbe entrare anche nei negoziati sul nucleare in corso con gli Usa. Scenari globali che si sovrappongono a quelli regionali. I mullah hanno costituito da decenni un network all’interno dell’Iraq, sono in grado di spostare volontari sciiti schierati in Siria e mobilitare quelli locali. Dispongono di forze di pronto intervento alla frontiera. Il contrattacco nella zona di Tikrit — ha rivelato il Wall Street Journal — è stato condotto proprio dai battaglioni della Qods. Così come ha un grande valore la presenza di Suleimani. Lo dimostra una foto pubblicata da un deputato con la didascalia: «Haji Qasim è qui». Come dire, ecco il salvatore. Che non lavora però gratis e un giorno chiederà la sua parcella.
Guido Olimpio
JIHADISTI AVANTI, AI CURDI IL PETROLIO DI KIRKUK –
DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME — Iraq al collasso. Tre anni dopo il ritiro americano, l’unità del Paese appare minata alle radici. L’avanzata verso Bagdad dei fondamentalisti sunniti guidati dalla milizia dello «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante» (Isis) continua senza che il governo sciita di Nouri al Maliki riesca ad opporre una forza di resistenza consistente. Nella capitale la popolazione accumula cibo, carburante e si prepara al peggio. Il rischio ora è che la guerra civile torni a farsi realtà come nei mesi sanguinosi del 2006 e 2007. I muri tra quartieri sciiti e sunniti della capitale tornano a farsi più alti che mai. Ieri il premier ha subito l’ennesimo smacco. Aveva convocato d’urgenza il Parlamento per dichiarare lo «stato di emergenza» e ricorrere a provvedimenti eccezionali per combattere le milizie sunnite. Ma è mancato il quorum, solo 128 dei 325 deputati sono apparsi in aula.
Un colpo grave per un leader sempre più disorientato, impotente e incapace di affrontare la prospettiva ormai concreta di sfaldamento della coesione nazionale. L’Iran resta al suo fianco. Il presidente americano Barack Obama ieri ha dichiarato che «l’Iraq avrà bisogno di ulteriore assistenza» e che il governo Usa sta esaminando «tutte le opzioni». Ma il fallimento di Maliki di inglobare gli elementi moderati dell’universo sunnita nella compagine governativa ha rafforzato le ali più estremiste, ben contente di stringere l’alleanza con la ribellione sunnita in Siria e decise a soverchiare gli sciiti in nome dell’utopia radicale del «nuovo Califfato wahabita». Le ultime notizie dal fronte dei combattimenti raccontano della rotta disordinata dell’esercito regolare iracheno. A Tikrit i veterani baathisti fraternizzano con le avanguardie dei nuovi radicali. Fonti locali segnalano pattuglie sunnite posizionate già una trentina di chilometri a nord dalla capitale. «Dobbiamo marciare su Bagdad. Abbiamo da regolare un vecchio conto laggiù», tuonano i leader dell’Isis. I più bellicosi minacciano di mettere a ferro e fuoco Karbala e Najaf, le città sante dell’universo sciita. Pare che solo nella città di Samarra le truppe regolari locali siano riuscite a resistere. Per il resto, l’Isis riporta vittoria dopo vittoria. Un monito per gli americani: lo scenario iracheno non preannuncia ciò che potrebbe avvenire nel prossimo futuro in Afghanistan? Dal 2003 Washington ha speso 25 miliardi di dollari per addestrare e armare i regolari iracheni. Ma tutto ciò appare sprecato. Gli insorti sunniti stanno pescando dagli arsenali abbandonati.
Ad approfittare del caos sono i curdi. Oltre 300 mila profughi dalla regione di Mosul sono entrati nei loro confini presso Erbil. Asserragliati nelle loro province indipendenti, de facto ormai uno Stato a sé, i curdi nelle ultime ore hanno realizzato quasi senza combattere un loro vecchio sogno: il controllo di Kirkuk. È questo uno dei poli petroliferi più importanti del settentrione iracheno. Saddam Hussein trent’anni fa vi aveva espulso la popolazione curda per insediarvi arabi. Dal 2003 i curdi vorrebbero includerla nelle loro regioni, Maliki si è sempre opposto. Ma adesso la strada è aperta e i peshmerga (la milizia curda) costituiscono una formidabile forza militare, forse l’unica coesa, ben comandata e in grado di opporre una solida resistenza agli insorti sunniti. Ieri questi ultimi si sono rapidamente ritirati da Kirkuk. I loro obbiettivi per il momento guardano a Sud. Lo scontro con i curdi sarà rimandato al futuro.
Lorenzo Cremonesi
«L’AMERICA HA IL DOVERE DI COMBATTERE CONTRO AL QAEDA» –
Arthur Brooks, 50 anni, è il presidente dell’American Enterprise Institute: prima ha fatto l’economista e prima ancora il musicista (ha suonato il corno francese nell’orchestra sinfonica di Barcellona). Ora ha deciso di alzare le sue ambizioni e di ragionare su orizzonti lunghi. Per riassumere: nel giro di qualche anno intende cambiare i connotati dell’America. Vuole riportarla a quello per cui è nata: libertà, libera iniziativa, meritocrazia. Non tanto per motivi economici: per ragioni morali. L’attualità politica, dunque, la inquadra in prospettive non contingenti.
Sull’Iraq dice che il Paese «è in una spirale fuori controllo perché gli Stati Uniti si sono ritirati prematuramente con l’obiettivo di incrementare la popolarità domestica (del presidente Obama, ndr). Il risultato è prevedibile, gli iracheni avrebbero meritato qualcosa di meglio. Non dobbiamo mantenere forze in Iraq per sempre, dobbiamo però onorare i nostri impegni a combattere Al Qaeda». Sulla sconfitta inattesa del leader repubblicano Eric Cantor alle primarie della Virginia, a opera di un professore sostenuto dai Tea Party, commenta che «la politica è local: se sei un leader nazionale devi fare molta attenzione alla contraddizione che si crea. Nella vicenda Cantor non bisogna però leggere niente di particolarmente significativo: non spiana la strada ai Tea Party. La verità è che tra i conservatori americani si sta sviluppando un movimento di riforma, una New Right. Qualcuno deve interessarsi della povera gente, di chi non ha voce e non ha potere. E combattere per essa. La sinistra non lo fa. E i Tea Party sono per definizione ribelli contro qualcosa. Questo nuovo movimento è invece popolare».
Il cuore teorico del movimento di riforma è proprio l’American Enterprise Institute (Aei) di Washington, uno dei think tank più influenti d’America: ci lavorano più di 200 persone, un budget annuo di 50 milioni di dollari. È da lì che Brooks ne tira le fila, non come costola del partito repubblicano — «io sono un indipendente», dice — ma con l’obiettivo di fare riconquistare il centro della politica a una serie di valori, prima ancora che di politiche. In America e fuori, tanto che in questi giorni è in Italia per una serie di incontri dell’Istituto Bruno Leoni e per presentare il suo libro, «La via della Libertà» (Rubettino).
Durante questa lunga intervista, Brooks dice che negli Stati Uniti ci sono quattro città che in qualche modo si ergono ad alternativa a Dio (nella definizione di Tommaso d’Aquino): New York per il denaro, Washington per il potere, San Francisco per il piacere e Los Angeles per l’onore inteso come successo. Per molti versi, sono i volti di oggi della sinistra liberal americana. «Trovi decadenza ovunque mentre non trovi virtù ed eroi», dice. Una pratica di lavoro all’Aei, dunque, è l’esame di coscienza, per garantire che il proprio lavoro sia capace di beneficiare la gente più di se stessi. «Ma non con visioni di sinistra. Per esempio, è necessario affermare che il Welfare è un male per le persone», nel senso che le impoverisce nello spirito e nell’iniziativa. La chiave è insomma l’approccio morale, la ricostruzione delle basi della cultura americana intese come libertà — di parola, di impresa, di coscienza —, individualismo, proprietà privata, vero mercato (non monopoli e intrecci tra ricchi e Stato), meritocrazia.
Brooks sostiene che il capitalismo deve tornare a essere quello che era, un sistema di mercato che beneficia i poveri, i quali attraverso la competizione e il premio del merito possono cambiare la loro condizione. È attorno a questo obiettivo che intende dare sbocchi alle aspirazioni degli americani: «Un’unità intorno alla virtù» capace di creare qualcosa «che somigli al movimento dei diritti civili degli Anni Sessanta, un movimento di ideali che vada al di là della politica». Un’agenda del genere è decisamente ambiziosa ma non è ancora una piattaforma. È però probabilmente la novità emergente nel dibattito politico-culturale americano, certamente tra i conservatori alla ricerca di nuovi riferimenti dopo le rotte elettorali sofferte per mano di Barack Obama. Idealismo conservatore: in casa, osservando la sconfitta di Cantor, nel mondo, davanti alla tragedia d’Iraq.
Danilo Taino