Flavio Pompetti, Roberto Romagnoli, Michele Di Branco, Il Messaggero 13/6/2014, 13 giugno 2014
CAOS IRAQ, SPUNTA L’OPZIONE MILITARE STATI UNITI PRONTI ALL’ATTACCO AEREO [4
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L’ANNUNCIO
NEW YORK «L’Iraq ha bisogno del nostro aiuto e di quello della comunità internazionale. Non escludo nessun mezzo di intervento» Il presidente americano Barack Obama, il politico che ha conquistato la Casa Bianca sei anni fa con la promessa di chiudere le campagne militari in Iraq e in Afghanistan, si trova ad affrontare una delle decisioni più difficili del suo mandato. L’opzione di lungo termine secondo il leader resta quella politica, con un’apertura del governo di Baghdad alla minoranza sunnita del paese. «In prospettiva dovremo attrezzarci per un’istruzione continua delle forze militari locali, in Iraq e in Nord Africa, per aiutare quei paesi a difendersi dalla minaccia del terrorismo» dice Obama, che però ammette: «Nell’immediato ci sarà bisogno di un intervento militare». Il presidente ha specificato che non riporterà i soldati Usa nel paese da cui sono partiti solo tre anni fa, dopo un’invasione durata un intero decennio. L’intervento potrebbe piuttosto avere la forma di un attacco dal cielo, con l’utilizzo dei bombardieri o di droni dei quali lo stesso Maliki ha invocato l’intervento. Il dilemma per l’amministrazione è se accettare di intervenire a fianco dell’attuale leader politico iracheno, il quale è considerato responsabile della rabbia dei sunniti insorti a fianco di al Qaeda, oppure chiedere prima una sua sostituzione con un nuovo capo di governo aperto alla inclusione delle minoranze.
I REPUBBLICANI
L’intervento americano è chiesto a gran voce dall’autorevole senatore McCain, che Obama sconfisse nel 2008 anche sulla base della diversa strategia militare in Medio Oriente: «Ogni esperto di sicurezza americano - ha detto il senatore dell’Arizona ieri in Congresso - ci dice che la crisi irachena potrebbe preludere alla creazione di uno stato di milizia islamica, e che l’evento avrebbe conseguenze catastrofiche per tutti». Meno sottile è la posizione del leader repubblicano John Boehner: «È da un anno che discutiamo la minaccia che Isis rappresenta per l’Iraq, e negli ultimi mesi dopo Fallujah sapevamo che i timori erano reali. E il presidente cosa ha fatto in questo tempo? Ha fatto una pennichella». La necessità di una reazione è percepita in ogni angolo del mondo, sia pure con modalità diverse. Da Parigi il ministro degli Esteri Laurent Fabius ha detto che «la perdita di sovranità dello stato iracheno è una seria minaccia» e che «la comunità internazionale ha l’imperativo di occuparsene», mentre l’Inghilterra ha inviato osservatori per stabilire l’entità dell’emergenza umanitaria.
EUROPA SENZA RUOLO
L’Europa non ha comunque un mandato al riguardo, come ha ricordato il comandante della Nato Rasmussen, e quindi «non ha ruolo da giocare nel conflitto in atto». La Germania ha chiesto il rimpatrio immediato di tutti i suoi cittadini residenti nelle regioni settentrionali dell’Iraq. L’Onu per bocca del suo segretario generale Ban Ki-moon ha condannato il sequestro dei cittadini turchi nella sede diplomatica di Monsul e ne ha chiesto l’immediato rilascio, mentre il governo di Ankara ha minacciato ritorsioni immediate contro quelli che in fondo sono i loro fratelli sunniti iracheni, se gli ostaggi non saranno liberati. Anche l’Iran sciita si è detto pronto ad intervenire nella crisi per difendere il paese vicino dalla minaccia di una infiltrazione delle forze terroriste islamiche. Il presidente Rohani ha definito «barbarico» l’Isis, e ha convocato i responsabili nazionali della sicurezza per analizzare la situazione. Prudente per ora la reazione di Mosca: il ministro degli Esteri Serghei Lavrov si dice «preoccupato» dall’avanzata jihadista, ma ricorda anche che la crisi attuale è la conseguenza dell’invasione statunitense e inglese del 2003.
Flavio Pompetti
PIOGGIA DI BOMBE SUI JIHADISTI A TIKRIT PASDARAN IRANIANI IN AIUTO DI BAGDAD –
L’OFFENSIVA
ROMA Un esercito inaffidabile e un Parlamento irresponsabile rischiano di consegnare l’Iraq alle forze del male guidate da Abu Bakr al-Baghdadi, capo delle milizie sunnite dello Stato dell’Iraq e della Siria (Isis). Il primo, nonostante la schiacciante superiorità numerica - quasi un milione di effettivi contro non più di diecimila miliziani di cui solo la metà “professionisti”, sta dimostrando tutta la sua incapacità. Il secondo ha messo in luce ieri tutta la sua debolezza riuscendo a rinviare - 128 sì su 325 deputati - la decisione di proclamare, come richiesto due giorni fa dal premier al Maliki, lo stato di emergenza per offrire maggiori poteri all’esercito. E questo mentre tutto il Nord del Paese è sconvolto dall’avanzata dei jihadisti dell’Isis il cui prossimo obiettivo potrebbe essere Bagdad. Ma, forse, il timore più grande, per l’Iraq come per tutto il mondo, è che l’Isis possa riuscire a edificare, tra il nordovest dell’Iraq e il nordest della Siria, uno stato islamico del terrore da dove irradiare quel vangelo di violenza che è alla base del pensiero di Abu Bakr al-Baghdadi (nome di battaglia), lo “jihadista invisibile” le cui gesta lo stanno trasformando in un nuovo bin Laden; al quale si ispira, di cui ha promesso di volrne vendicare la morte e con il cui successore, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, ha stretto un’alleanza nel maggio 2011. Insomma Abu Bakr al-Baghdadi comincia a fare davvero paura a tal punto che l’Iran avrebbe deciso di mobilitare e inviare - la notizia è apparsa sul Wall Street Journal - due battaglioni pasdaran nel nord dell’Iraq per contrastare i combattenti dell’Isis. E anche la Siria, già alle prese con la sua guerra interna, è preoccupata dell’avanzata dell’Isis e si è dichiarata pronta a dare una mano nella «comune lotta al terrorismo».
Gli iracheni, dal loro canto, la preoccupazione l’hanno superata precipitando appieno dentro un incubo. Ieri per tutta la giornata gli scontri tra jihadisti ed esercito iracheno sono proseguiti a Tikrit, circa 150 chilometri a nord di Bagdad. E’ intervenuta anche l’aviazione irachena che ha bombardato a più riprese alcune zone della città finite sotto il controllo degli assalitori. Le notizie provenienti da Tikrit sono molto confuse; tra queste anche la cattura, da parte dei jihadisti, di centinaia di poliziotti iracheni. Fonti dell’Isis hanno anche annunciato la cattura di 4.500 soldati iracheni nella provincia di Salaheddin.
RINFORZI DALLA SIRIA
Sulla direttrice che collega Mosul e Baghdad centinaia di miliziani qaedisti - secondo la tv al Arabya - avrebbero circondato una raffineria di petrolio nella provincia irachena di Baiji. Secondo testimonianze raccolte dal portale TahrirSuri rinforzi militari dal nord-est della Siria diretti verso Mosul sarebbero arrivati ieri, per il terzo giorno consecutivo, alle avanguardie di miliziani qaedisti. Le fonti hanno precisato che ciascun convoglio è composto all’incirca da un centinaio di automezzi. Scontri anche tra miliziani curdi e jihadisti nella zona attraversata in queste ore dalle centinaia di migliaia di abitanti di Mosul che cercano riparo proprio nella regione del Kurdistan iracheno. Di «completa anarchia», «persone armate che presidiano strade e piazze» e «famiglie terrorizzate rintanate nelle proprie case» parla di il vescovo di Mosul Emil Shimoun Nona rifugiatosi in un villaggio a tre chilometri dalla città. E sempre a Mosul non si sblocca la situazione delle decine di ostaggi dei jihadisti, tra cui il console, nella sede diplomatica turca.
Roberto Romagnoli
SEQUESTRO CONTRACTOR, CHIESTI 25 ANNI DI PENA –
Il procuratore generale della corte d’appello di Roma, Antonio Marini, ha chiesto due condanne a 25 anni di reclusione per due cittadini iracheni. Sarebbero i presunti carcerieri di Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino, i tre italiani assoldati da un’agenzia di security Usa e sequestrati in Iraq il 12 aprile 2004 assieme a Maurizio Quattrocchi, l’unico a essere ucciso con un colpo di pistola alla nuca. In primo grado erano stati prosciolti perché mancavano alcune condizioni previste dal codice penale.
IMPENNATA DEL PREZZO DEL PETROLIO CRESCE IL TIMORE DI UNA NUOVA CRISI –
IL MERCATO
ROMA L’avanzata di Al Qaeda in Iraq porta nuova tensione sul mercato petrolifero. Gli estremisti dello Stato islamico, dopo aver conquistato Mosul, hanno infatti esteso il loro controllo alla provincia di Baiji, dove è presente la maggiore raffineria del Paese. Un’operazione militare che sta portando forte tensione nei prezzi del barile, con il Brent che ieri è arrivato a superare 112 dollari (106,5 l’americano Wti che è balzato di oltre il 2% rivedendo i massimi di quasi un anno fa) toccando i livelli del dicembre 2013, mentre in un contesto di fondamentali già parzialmente tirati un po’ in tutto il mondo si aggiunge l’incognita della produzione irachena.
LE TENSIONI GEOPOLITICHE
Nel Paese aumentano le tensioni geopolitiche: al momento solo gli impianti del sud, che garantiscono una produzione da 2,6 milioni di barili al giorno, appaiono al sicuro ma il quadro di crescente tensione getta ombre anche su questo territorio. L’aggressione estremista preoccupa non poco gli Stati Uniti, come dimostra la scesa in campo di Barack Obama. D’altro canto, anche ieri l’amministrazione irachena ha rinnovato al governo di Washington l’invito a prendere in considerazione l’invio di droni contro i qaedisti che, in un’offensiva lampo, hanno conquistato negli ultimi tre giorni tutta la fascia settentrionale del Paese. La richiesta era stata in un primo momento respinta ma ora Obama, al quale il premier irakeno Ali Maliki avrebbe chiesto di «fermare le forze islamiste che si stanno impadronendo del Paese», starebbe valutando la possibilità di un intervento militare.
LA PRODUZIONE AUMENTATA
Per il momento, comunque, le tensioni irachene non sembrano tali da indurre modifiche nelle strategie dei Paesi produttori di petrolio. Due giorni fa si è svolta la riunione dell’Opec che, come da previsioni, ha confermato ancora una volta il tetto produttivo di 30 milioni di barili al giorno. Il membro saudita dell’organizzazione ha comunque precisato che «a breve i membri dell’Opec potrebbero doversi confrontare con le conseguenze della spirale di conflitti in Iraq». Bisogna aggiungere che l’Iraq negli ultimi mesi ha sensibilmente aumentato la produzione di greggio, tanto da imporsi un target di 4 milioni di barili al giorno entro la fine dell’anno. La maggior parte della produzione si concentra nel Sud, in zone ancora lontane dagli attuali focolai di guerra civile ma l’attuale situazione avvantaggia la regione semi-autonoma curda, che ha iniziato le esportazioni nelle recenti settimane. Secondo le stime Opec, la domanda globale di petrolio dovrebbe raggiungere quest’anno 91,1 milioni di barili al giorno, in crescita di 1,1 milioni rispetto al 2013, con la produzione non Opec attesa in aumento di 1,4 milioni di barili. Per capire quanto la situazione di tensione sul greggio incide sui mercati mobiliari, basti dire che ieri l’Europa delle Borse ha assistito a un risveglio nervoso dei titoli energetici.
LINEE AEREE IN DIFFICOLTÀ
La francese Total ha infatti guadagnato l’1,3%, l’inglese Bg Petroleum il 2,51% e la multinazionale Royal Dutch Shell lo 0,74%. Per contro, come sempre accade di fronte a un greggio che s’impenna, tutto il comparto aereo ha sofferto: Lufthansa ha lasciato sul campo l’1,3%, l’inglese-ispanico International Airlines Group il 3,1% e EasyJet l’1,9%. Giù anche i minerari con Anglo American che è arretrata del 3,1% come Rio Tinto.
Sebbene la situazione appaia ancora relativamente sotto controllo, nell’immaginario di molti operatori hanno cominciato a prendere forma i ricordi di sei anni fa, quando il greggio in ordine a svariati motivi solo in parte legati alla crisi economica che si stava imponendo, giunse a sfiorare quota 150 dollari. Era il settembre 2008 e, anche in funzione di un trading speculativo che mai si era visto prima, il prezzo del greggio sembrava proiettato verso 200 dollari. Solo il fallimento di Lehman Brothers, con il suo drammatico segnale che la crisi economica stava entrando nella fase più acuta, fermò quella corsa micidiale.
Michele Di Branco