la Repubblica 13/6/2014, 13 giugno 2014
LA MARCIA DEI JIHADISTI NELL’IRAQ IN MACERIE ORA BAGDAD È PIÙ VICINA
[Tre articoli] –
ERBIL (KURDISTAN IRACHENO).
Mappe geografiche da buttar via. Frontiere cancellate. Assieme alla foto di Saddam Hussein, impallinata da chissà quanto tempo, e alla scritta «Bagdad capitale ». I muri del Kurdistan, porta aperta dell’Iraq, la zona più verde e sviluppata di un gigante che barcolla, a guardarli svelano in un lampo la nuda realtà.
Benvenuti in un Paese fatto a pezzi. A un passo dal disastro. Con i curdi a nord, i sunniti al centro e gli sciiti a sud, come subito dopo la guerra del 2003. Ma allora quel barlume di Stato esisteva ancora. Oggi l’Iraq fatica a stare assieme. E le bande di fondamentalisti islamici che da tre giorni percorrono le sue province in lungo e in largo, attaccati a una bandiera nera issata su camionette dal profilo sinistro, preludono a un’altra spaccatura, con la possibile creazione di un Emirato fantasma. Il loro credo è il Sacro Corano, beninteso modificato a piacimento. L’obiettivo vero: la conquista dei ricchi giacimenti petroliferi di Kirkuk o Mosul. Lo scopo finale: la presa di Bagdad e l’instaurazione di una nuova entità statale a cavallo del nord, simboleggiata da un acronimo inedito. Isis, Stato islamico dell’Iraq e della Siria.
Spadroneggianti sui loro pickup per buona parte dell’Iraq settentrionale, come squadre giustiziere attraversano centri e periferie mettendo a ferro e fuoco città grandi come Mosul (la seconda del Paese) e agglomerati storici e tradizionalmente interetnici come Kirkuk, residenza di curdi, turcomanni, arabi, un tempo anche di ebrei. Ovunque lasciano il loro marchio di morte, eseguendo condanne sommarie come sui poliziotti regolari a Tikrit o appiccando fiamme alle chiese cristiane di Mosul. L’oscuro personaggio che li guida, al-Baghdadi, è ora considerato dagli esperti di terrorismo internazionale come il legittimo erede di Osama bin Laden. Ed è proprio a Bagdad che la nuova guerra santa adesso punta, ieri a soli 70 chilometri dalla capitale. Un giorno appena di marcia, se la resistenza non si ridesta.
Qui il portavoce dell’Isis, Mohammed Al Adnani, si è fatto vivo con i suoi, tutti dotati di apparecchi modernissimi nonostante le tuniche e le ciabatte indossate assieme ai mitra di ultima generazione, con un messaggio audio appoggiato su Internet. «Continuate ad avanzare. La battaglia arriverà presto a Bagdad e Kerbala. Indossate le cinture e siate pronti». E mentre le cinture vengono indossate e debitamente preparate, nella capitale un Parlamento allo sbando, in cui i partiti sunniti osteggiano il premier sciita Nuri al-Maliki, non è riuscito votare sulla proclamazione dello stato d’emergenza chiesta dal governo, per mancanza del quorum. Nell’Assemblea si sono presentati solo 128 parlamentari su 325. Non essendoci almeno la metà dei membri, la votazione è stata cancellata e rinviata a data da destinarsi.
La Bagdad civile, però, è tutt’altro che indifferente al macello e trema di fronte a un’avanzata d’ora in ora più vicina. L’Onu assicura che la capitale «non è soggetta a un immediato pericolo di violenza». Ma più a nord la battaglia infuria, e l’esercito regolare ha finalmente reagito a un attacco che pareva non lasciare scampo. Su Tikrit, in parte controllata dai miliziani qaedisti, l’aviazione ha computo alcuni raid. E postazioni jihadiste sono state bombardate dalle forze aeree irachene a Mosul, conquistata martedì dall’Isis. In un centro abitato in maggioranza da sunniti, dove le avanguardie irregolari ottengono rinforzi dalla Siria in preda alle divisioni e alla guerra interna, molte famiglie musulmane si sono mosse a difesa delle chiese cristiane.
Monsignor Emil Shimoun Nona, l’arcivescovo caldeo di una città dove l’altro giorno 500 mila persone sono fuggite dall’orda fondamentalista, originando una crisi umanitaria, oltre che economica e politica, ha dato questa testimonianza all’agenzia Asianews : «Alcuni hanno fatto irruzione nella chiesa di Santo Spirito per rubare e devastare. Tuttavia, i vicini, appartenenti a famiglie musulmane, sono scesi in strada a difesa del luogo di culto cristiano. Alla fine sono riusciti a cacciare gli assalitori. In città tante persone rimaste, anche musulmani, stanno cercando di difendere per quanto possibile case e luoghi di culto cristiani. Delle famiglie sono rimaste, ma restano rintanate in casa, e prevale un’atmosfera di paura e di attesa per quello che succederà dopo».
A Kirkuk, già minacciata dalla bandiera nera della nuova Al Qaeda, le milizie curde dei guerriglieri peshmerga si sono schierate a protezione della città e dopo scontri cruenti (17 i morti dell’Isis) sostengono il totale controllo della provincia, in un’area contesa fra le autorità centrali di Bagdad e quelle autonome della curda Erbil.
Altrove la situazione è più incerta. Samarra è accerchiata dai guerriglieri. Nella provincia di Baiji i jihadisti sono pronti a tutto per controllare l’area petrolifera. Irrisolta è la crisi degli ostaggi turchi. Il rilascio degli 80 ostaggi del consolato generale a Mosul (diplomatici, famiglie e bambini) e dei 31 camionisti bloccati dai miliziani dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria non è avvenuto. Ankara negozia, dice, «con tutti i gruppi, curdi e turcomanni compresi». E sia l’Onu che gli Usa e la Nato sono intervenuti esigendo «immediatamente » la liberazione dei prigionieri.
Ma non solo la Turchia guarda con preoccupazione allo scacchiere ormai slabbrato dell’Iraq. L’Iran, l’antico nemico, ha promesso con il presidente Hassan Rohani che aiuterà Bagdad a combattere il «terrorismo» e l’offensiva «selvaggia» dei miliziani qaedisti. In Giordania l’esercito ammassa soldati lungo il confine con l’Iraq. E la Lega araba ha deciso per domenica al Cairo una riunione straordinaria dei suoi ambasciatori, esprimendo al ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari, la propria «profonda inquietudine» per la situazione creatasi nel Paese. Un’intera regione si mobilita in queste ore attorno alla mappa moribonda dell’Iraq. E cerca di capire se la carta geografica va definitivamente strappata, o se qualche pezzo di confine, ancora, resiste.
Marco Ansaldo, la Repubblica 13/6/2014
I RIBELLI DELL’ISIS TRA BANDIERE NERE E SIGILLI DEL PROFETA –
Le bandiere nere con la dichiarazione di fede islamica e il sigillo di Maometto sventolano, cancellando un confine creato da strateghi occidentali dopo la Grande Guerra e unendo il Nord Iraq e la Siria dell’Est. Il sogno è quello di un califfato che unisca i sunniti, lasciando fuori gli odiati infedeli e gli eretici sciiti. Lo Stato islamico di Iraq e Levante (qualcuno traduce come “Siria” quest’ultima parola), generalmente indicato come Isis, è il cartello di movimenti jihadisti che sta cancellando con offensive violentissime quanto restava delle immagini americane di vittoria in Iraq.
Se il segreto della strategia di David Petraeus era stato l’alleanza con le tribù sunnite nel Nord-Ovest, e specialmente nel governatorato di Al Anbar, contro i qaedisti, l’avanzata dell’Isis dimostra che questa alleanza non è durata. Il braccio iracheno di Al Qaeda, riottoso persino a seguire la guida del comandante globale, Ayman Al Zawahiri, ha conquistato con una “ricetta iracheno-siriana” quel consenso che in Nord Iraq i primi jihadisti avevano perso. Si parlava di eccessi teologici, sgraditi alla popolazione, che vanta forti tradizioni laiche. Nel 2006 e 2007 gli Usa avevano approfittato di queste differenze per conquistare il sostegno dei capi locali e sconfiggere i qaedisti. Ma ora che il fiume di dollari si è inaridito, contano di più l’identità sunnita e la rivalità con gli sciiti al potere a Bagdad.
L’“indipendenza” rivendicata dall’Isis è sostanziale: alla fine del 2013 il leader del-l’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, che si definisce discendente del Profeta, ha respinto gli inviti di Al Zawahiri, che voleva far lasciare la Siria all’Isis per dare una sorta di esclusiva della Jihad contro Damasco al fronte Al Nusra. Baghdadi ha detto di no, ha insistito nel progetto dell’emirato in due stati. In ballo c’erano i ricchi finanziamenti arrivati in Siria ai ribelli anti-Assad dagli Emirati arabi, dal regno saudita e persino dall’Occidente, in un grottesco bis del sostegno a Bin Laden negli anni della lotta contro l’Urss in Afghanistan.
g. cad., la Repubblica 13/6/2014
LA SVOLTA DI OBAMA “STIAMO VALUTANDO L’INTERVENTO MILITARE” –
NEW YORK .
Barack Obama «studia tutte le opzioni» di fronte all’avanzata dei combattenti sunniti vicini ad Al Qaeda che hanno riconquistato la città di Mosul nell’Iraq settentrionale. «Tutte le opzioni», inclusi attacchi aerei e blitz di droni, che lo stesso governo iracheno chiede all’America. «Quel che abbiamo visto negli ultimi giorni — dice Obama — dimostra fino a che punto l’Iraq avrà bisogno di aiuti aggiuntivi da parte degli Stati Uniti e della comunità internazionale ». La sua squadra di sicurezza nazionale «sta lavorando senza tregua per individuare gli aiuti più efficaci, nulla viene escluso», sottolinea il presidente. Per Obama l’obiettivo è «garantire che i combattenti della jihad non si insedino in modo permanente in Iraq, in Siria, o altrove».
Mentre il vecchio rivale repubblicano John Mc-Cain torna alla carica accusandolo di «fare la siesta mentre Al Qaeda si riprende l’Iraq», per Obama un incubo si sta materializzando.
Dei due conflitti che aveva ereditato da George W. Bush, quello in Iraq era «la guerra sbagliata». Obama se n’era dissociato, da senatore dell’Illinois, contribuendo con quella scelta alla propria vittoria del 2008 (mentre Hillary Clinton pagò presso la base democratica il voto favorevole sull’invasione dell’Iraq). Mantenuta la promessa di ritirarsi, Obama ora si vede costretto a impedire che pezzi interi dell’Iraq, forse la stessa capitale Bagdad, finiscano nelle mani di un gruppo estremista (Islamic State of Iraq and al-Sham, Isis) che deriva da Al Qaeda.
Obama non prende in considerazione il ritorno delle sue truppe. Ma i soli bombardamenti aerei o blitz dei droni possono cambiare i rapporti di forze sul terreno? Il presidente americano ne parla col suo omologo iracheno Nuri Kamal al-Maliki, accusandolo esplicitamente di non aver saputo costruire «una vera fiducia e cooperazione tra dirigenti moderati sunniti e sciiti».
L’America riscopre una questione irachena, e s’interroga sugli errori compiuti in passato. Obama non può consolarsi ricordando che quegli errori furono antecedenti al suo arrivo alla Casa Bianca. Il primo sbaglio, ricorda un dossier della Cnn, fu l’aver smantellato l’esercito di Saddam Hussein, che fu uno dei più numerosi del mondo (430.000 soldati più 400.000 riserve). Secondo lo studioso Fawaz Gerges, «migliaia di ex ufficiali di Saddam Hussein sono finiti nei ranghi dell’Isis », contribuendo alla riscossa della jihad. Mentre l’esercito del governo è sguarnito, debole e incompetente.
Un altro elemento di preoccupazione si collega alla Siria: quella guerra civile contagia a macchia d’olio altre zone del Medio Oriente. Isis controlla un’area della Siria e da lì sprigiona la sua influenza, fa reclute, invia aiuti, riceve e amministra milioni di dollari di donazioni. Secondo Ramzy Mardini dell’Atlantic Council «c’è uno sforzo concertato per unire la Siria e l’Iraq come un solo teatro di guerra tra fazioni». I successi di Isis in Siria «galvanizzano e rilanciano i militanti iracheni, uniti dallo stesso obiettivo, che è la costruzione del grande califfato, uno Stato islamico che comprenda tutta l’area». James Jeffrey, che fu l’ambasciatore americano nominato da Obama a Bagdad dal 2010 al 2012, punta il dito contro il governo di Maliki e il suo fallimento nell’opera di riconciliazione tra sciiti e sunniti. «Contro i sunniti è stata scatenata una campagna atroce, mentre non c’è stato uno sforzo di cooptarli nel governo », accusa l’ex ambasciatore. E ricorda che ancor prima dell’attuale battaglia, 8.000 civili erano stati uccisi nel solo 2013 nella guerra civile irachena: il bilancio di vittime più grave dal 2008. Ora i falchi della destra si scagliano contro il “pacifista Obama” e denunciano come un errore il ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Dal picco massimo di 166.000 militari americani, si era scesi vicino allo zero alla vigilia della rielezione di Obama per il secondo mandato, nel 2012. Oggi McCain e l’ex capo della Cia Michael Hayden hanno buon gioco ad accusare Obama di aver creato un vuoto dove potrebbero infilarsi con un intervento militare l’Iran o la Turchia, i due paesi limitrofi più direttamente minacciati dall’instabilità irachena. Ma perfino l’elettorato repubblicano sarebbe contrario ad un ritorno delle truppe Usa in Iraq. Il costo del sostegno americano all’Iraq resta elevato: 15 miliardi stanziati di recente per fornire all’esercito governativo armi, elicotteri e mezzi blindati.
Federico Rampini, la Repubblica 13/6/2014