Massimo Calandri, la Repubblica 13/6/2014, 13 giugno 2014
LA STANZA DI SCHUMI SEI MESI DI BUIO NELL’ATTESA DEL MIRACOLO
GRENOBLE
Al quinto piano c’è un grande salone di monitor, telecamere, cavi aggrovigliati, pulsanti e spie luminose che al principio ti sembra d’essere nella sala controllo di una stazione aerospaziale. Invece, dodici letti. Sottili pareti divisorie, tende. Camici, mascherine. Il silenzio. Ma facendo più attenzione arriva l’eco di qualche beep: un rumore leggero, cadenzato. I gesti senza fretta di medici e parenti. Oggi sono 167 giorni, sembrano tutti uguali, cinque mesi e mezzo che Michael Schumacher è in coma al centro neurochirurgico dell’ospedale di Grenoble: la caduta con gli sci e subito era cosciente però dopo qualche ora no, era già tutto finito. Due operazioni al cervello, il buio. Quel silenzio. «Stato vegetativo» lo chiamano, ma a marzo ha mosso due volte le palpebre e parlavano di «piccoli, importanti progressi». Poi più niente. Adesso pesa 50 chili, perché i muscoli si sono tutti ritirati. Pochi pazienti restano così a lungo nel reparto, che è uno dei più attrezzati di tutta la Francia ed ogni anno ospita una media di trenta persone. Così qualcuno sta già pensando al trasferimento del campione in una clinica privata, svizzera o tedesca. Accadrà presto — giorni, forse settimane: al quinto piano il tempo è un concetto relativo —, accadrà perché nel salone dei monitor arriveranno altri come lui. Da curare, sperando subito in un miracolo che per Schumi non è arrivato, non ancora, e allora è giusto dare a tutti un’opportunità.
Corinna Betsch Halver, la moglie, tutte le mattine parcheggia una Mercedes 4x4 nera a ridosso del padiglione Belledonne, in una strada stretta alle spalle del gabbiotto dei custodi. Esce dall’auto di fretta, anche se i giornalisti hanno smesso da mesi di assediare l’ingresso e la curiosità della gente ha lasciato spazio all’indifferenza, all’abitudine.
A volte qualche fotografo testardo si sistema dietro alle macchine sul piazzale, scatta col teleobiettivo ma senza troppa convinzione. Nei primi mesi con la moglie venivano anche i figli, ora solo nel fine-settimana. Come il fratello di lui, Ralf, e come il padre, che all’inizio giurava «Mio figlio è un lottatore », poi però ha perso la voglia di parlare. Corinna invece c’è sempre e lotta, chiude la portiera e istintivamente guarda in alto — verso il quinto piano —, supera la porta a vetri protetta dal personale della vigilanza. Resta sei ore, sei ore precise, tutti i giorni. Alle 17.30 scende puntuale: fila via, non ha mai parlato e ha chiesto ai responsabili del reparto di non aprire bocca per nessun motivo. A smentire le notizie ci pensa Sabine Kehn, la portavoce che quattro giorni fa si è decisa a rispondere al cellulare e ha urlato «Siete pazzi?», perché qualcuno aveva twittato della morte di Schumacher. Questa volta non smentirà la notizia del trasferimento in una clinica privata perché lo sa benissimo, che è una decisione ineluttabile.
Lo scorso 28 dicembre, un adolescente francese è morto sulla pista del Soleil Rouge di Saint François di Longchamps, poco lontano da Meribel. Tradito dalla neve fresca è caduto su di una pietraia, ha battuto la testa. Aveva 16 anni. Ventiquattro ore più tardi, anche Michael è rimasto vittima di un incidente analogo. È uscito fuoripista per non più di 10 metri, gli sci si sono incrociati, è caduto. Aveva il casco, ma non è servito: ha battuto la testa sul lato destro, sul sinistro si è formato un grosso ematoma. Schumacher ha compiuto 45 anni il 3 gennaio. La procura di Albertville ha archiviato l’inchiesta sul suo incidente. Non ci sono responsabili. «Storie così sono sempre successe. In montagna ci vuole prudenza», mugugna la gente della zona. Nell’Alta Savoia ogni anno accade una mezza dozzina di tragedie simili sulle piste. Chi sopravvive, finisce al quinto piano dell’ospedale di Grenoble.
Il 12 giugno del 1994, Michael Schumacher vinceva il gran premio del Canada. Una delle gare più belle della sua straordinaria carriera, nell’anno del primo dei sette successi mondiali: era l’alba del grande campione. Vent’anni ieri, sembrano mille e sembra un’altra vita. In quella gara di Montreal arrivò secondo il francese Jean Alesi, che guidava una Ferrari. Jean ha un figlio, Giuliano, che corre sui kart con quello di Michael, Mick: «Né io né Giuliano gli chiediamo mai nulla delle condizioni del padre. Aspettiamo sia lui a parlare, spontaneamente. Ma non lo fa. E questa non è una cosa buona. Perché vuol dire che non c’è nulla di buono da raccontare». Quella volta in Canada, Schumacher correva per la Benetton, il boss era cuneese immarcabile. Flavio Briatore. Che magari non ti sembra il tipo giusto per parlare di certe cose, oppure no. Perché lui, Michael lo conosce meglio di molti altri: «No news, bad news», dice, ribadendo un concetto ormai metabolizzato da tutti.
Solo quei due leggeri movimenti delle palpebre in quasi sei mesi. Piccoli, importanti progressi: così dice la famiglia, e chi può avere il coraggio — il diritto — di disilludere Corinna? Gary Harstein è l’ex delegato medico per la Formula Uno della Fia, la Federazione di automobilismo. Sul suo blog ha postato un commento tanto banale quanto crudele: «Non ho alcuna informazione diretta. Ad ogni modo, ritengo che saremmo stati informati nel quale caso fossero emersi sviluppi positivi. Non avrebbe senso non dare ai fan buone notizie, se ci fossero». Appunto. Ma Harstein, anestesista americano, ha aggiunto una valutazione professionale: «Nessuna persona in stato vegetativo per un anno può riprendere conoscenza». Piccoli, importanti progressi? «Le possibilità di risveglio diminuiscono con il passare delle settimane e diventano minime dopo sei mesi: nessuna persona in stato vegetativo per un anno può riprendere conoscenza». E poi, ancora: «Non avremo mai più buone notizie sullo stato di salute di Michael Schumacher». Al quinto piano il silenzio si è fatto più buio.
Massimo Calandri, la Repubblica 13/6/2014