Roberto Toscano, La Stampa 13/6/2014, 13 giugno 2014
Il rischio di una deriva incontrollabile Roberto Toscano Saddam Hussein probabilmente sta ridendo nella tomba», leggiamo in un blog sugli ultimi avvenimenti in Iraq
Il rischio di una deriva incontrollabile Roberto Toscano Saddam Hussein probabilmente sta ridendo nella tomba», leggiamo in un blog sugli ultimi avvenimenti in Iraq. Non si tratta purtroppo di una semplice battuta. L’eliminazione dell’infame dittatore iracheno, infatti, non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che George W. Bush aveva proclamato nel 2003 nel momento di attaccare Baghdad: la sconfitta del terrorismo islamista, la stabilità dell’Iraq, che avrebbe dovuto costituire un contrappeso democratico all’influenza iraniana e a diventare una sorta di modello valido per tutta la regione. Anzi, soprattutto oggi – con l’offensiva dell’Isis – risulta clamorosamente evidente che quell’intervento non solo era arbitrario nelle motivazioni (Saddam non stava costruendo una capacità nucleare, e non aveva niente a che vedere con Al Qaeda), ma era destinato a produrre risultati che oggi, con ogni evidenza, sono esattamente l’opposto di quelli perseguiti dall’amministrazione Bush. L’Iraq non solo è politicamente instabile, ma sembra addirittura correre il rischio di un’ulteriore spaccatura dopo la separazione di fatto, anche se mai dichiarata formalmente, del Kurdistan. Con una spaventosa, inarrestabile cadenza quotidiana, nelle città irachene le azioni terroriste mietono centinaia di vittime. Il governo di Maliki, nello stesso tempo autoritario e corrotto, ha perso completamente, a causa di una politica pesantemente settaria, il consenso della minoranza sunnita. L’Iran non ha mai avuto tanta influenza in Iraq, e costituisce il principale sostegno del governo Maliki, paradossalmente sostenuto anche da Washington. Invece di costituire un esempio e un polo di diffusione della democrazia su scala regionale l’Iraq si è trasformato nell’epicentro di una radicalizzazione violenta in grado di sconvolgere nell’intera regione non solo gli assetti politici, ma anche quelli territoriali. L’offensiva dell’Isis è di una assoluta gravità per una serie di motivi. In primo luogo si deve ricordare che le sue origini risalgono all’organizzazione terrorista Al Qaeda in Iraq-AQI, il cui leader, il giordano al-Zarkawi, arrivò ad una rottura con Bin Laden che – incredibile ma vero - contestava il suo eccessivo estremismo, e in particolare l’estrema violenza contro i non musulmani e i musulmani non sunniti. L’attuale leader dell’Isis, al Baghdadi, non fa certo mistero dei suoi orizzonti strategici, mentre «Human Rights Watch» ha ripetutamente denunciato i crimini e le vessazioni settarie commesse nelle zone controllate dal suo movimento. Ma il dato più significativo ed inquietante è il passaggio dal terrorismo ad una dimensione militare e ad ambizioni di conquista territoriale. Certamente l’Isis non riuscirà a ricostituire il Califfato - la mitica trasformazione della comunità dei fedeli, la umma, in unità politica - ma già oggi il fatto che non solo nella sua denominazione, ma nei fatti, il gruppo operi attraverso la frontiera tra Siria e Iraq, e anzi la consideri inesistente, fa ritenere non del tutto illusorio il sogno di impiantare quanto meno un potere islamista transfrontaliero sulla base, contemporaneamente, di una spaccatura in tre dell’Iraq (Sunniti, Sciiti, Curdi) e dell’incapacità di Assad di ristabilire un controllo effettivo sulla parte del Paese contigua all’Iraq. Si rivela così ancora una volta l’equivoco di fondo della strategia di George Bush, una focalizzazione sul terrorismo come nemico principale che non teneva conto del fatto che il terrorismo è uno strumento, non una causa. Uno strumento al servizio di finalità politiche che andrebbero conosciute ed analizzate per combatterle, non certo in alternativa all’uso della forza, ma per dare all’impiego della forza un orizzonte non episodico e soprattutto non fatto di incertezze e contraddizioni come invece è avvenuto anche dopo la fine dell’amministrazione Bush. Sarebbe troppo facile infatti spiegare la catastrofe presente fermandosi alle pur enormi responsabilità dei neo-con e dimenticando la quota di responsabilità che si deve attribuire all’attuale Presidente. Appare difficile contestare Barack Obama quando, prendendo atto della devastante replica della realtà alle allucinazioni bushiane, ha deciso che l’America non poteva permettersi altri disastri dello stesso tipo: interventi per la democrazia che innescano il perverso processo circolare anarchia/nuova dittatura, e soprattutto la distruzione degli Stati assieme all’eliminazione di un regime. È esattamente quello che è successo in Iraq, dove la fine di Saddam ha scatenato le pulsioni settarie, e dove lo smantellamento di esercito e impianto amministrativo ha reso impossibile qualsiasi progetto di Stato basato sulla cittadinanza invece che sull’identità etnico-religiosa. Anche se non si dice (troppo imbarazzante, sia per gli americani che per chi li ha seguiti) lo stesso è avvenuto con la Libia, dove l’eliminazione di Gheddafi ha portato non alla democrazia e alla prosperità bensì al disfacimento di quel poco di Stato che esisteva in precedenza, al proliferare delle milizie, alla trasformazione del Paese in una fonte di contagio terrorista e diffusione di armamenti su scala regionale, in particolare verso il Sahel. Ma disgraziatamente, ed è qui che le critiche risultano giustificate, Obama sembra prigioniero di una falsa alternativa: se non si può intervenire militarmente allora è meglio tenersi fuori il più possibile, o nel migliore dei casi promuovere conferenze e ricercare vie per la soluzione diplomatica delle crisi. Come se forza e diplomazia fossero alternative secche, mentre non è così nei fatti. Proprio in questi giorni Robert Ford, ex ambasciatore a Damasco, oggi dimissionario per il suo dissenso con la politica americana verso la Siria, ha scritto che, pur rendendosi pienamente conto del fatto che non esiste una soluzione militare al dramma siriano, resta convinto che l’aiuto militare alle correnti più moderate dell’opposizione armata ad Assad sarebbe indispensabile per indurre a più miti consigli il dittatore, e permettere quindi un vero negoziato e un vero compromesso sul futuro del Paese. Del tutto sensato, in apparenza, ma – e qui arriviamo al vero punto cruciale – fino a che punto questi «combattenti moderati» sono un fattore credibile? Sul terreno non sono certo la forza principale, né la più militarmente credibile, e non si tratta tanto di carenza di armamenti quanto di divisioni interne e scarsa chiarezza programmatica. L’America ha finanziato a suon di centinaia di milioni di dollari (l’ultimo stanziamento è di ben 14 miliardi) il governo di Maliki, ma oggi si vedono in televisione i miliziani dell’Isis circolare sui mezzi americani forniti al governo di Baghdad e catturati dopo la presa di Mossul, dove i reparti dell’esercito iracheno si sono arresi o hanno disertato in massa. La debolezza di Maliki, come quella delle forze più moderate che combattono contro Assad, non è militare, ma politica. La corruzione e il settarismo del governo sciita hanno distrutto il consenso rendendo del tutto retorici i riferimenti a Stato e cittadinanza fomentando così ulteriormente le identità etnico-religiose e il radicalismo politico. È clamoroso riscontrare che l’unità sunnita sotto la leadership degli islamisti più estremi si estende all’adesione di ex alti ufficiali baathisti, fra cui addirittura di quello che fu vice Presidente di Saddam, al-Douri. Qualcuno in questi giorni ha parlato di una nuova Guerra dei Trent’anni. Prospettiva spaventosa, tanto più che non è chiaro se e quando in Medio Oriente si potrà arrivare ad un equivalente della Pace di Westfalia. Di certo, comunque, è solamente attraverso un’azione internazionale concertata che si potrà sperare di fermare questa deriva che minaccia di diventare incontrollabile e «virale». Difficile, ma non impossibile, se si pensa che una vittoria dell’Isis a Baghdad, o anche un suo consolidamento su parte del territorio iracheno, viene vista come un pericolo non solo dagli Stati Uniti e dall’Europa, ma anche da russi e iraniani. Questi ultimi, in particolare, sarebbero senza dubbio disponibili, come lo sono stati nel 2001 al momento dell’attacco americano ai talebani, a un’alleanza di fatto con gli Stati Uniti, ma sono anche pericolosamente tentati, se l’offensiva dell’Isis dovesse produrre la fine del regime sciita a Baghdad, da qualche forma di intervento. Dal Levante alla Mesopotamia tutto è aperto, tutto è in gioco.