Sebastiano Messina, la Repubblica 13/6/2014, 13 giugno 2014
ERA dai tempi dell’ammainabandiera del Pci che la sinistra italiana non si ritrovava protagonista di un film così schizofrenico, così lacerante, così spettacolare
ERA dai tempi dell’ammainabandiera del Pci che la sinistra italiana non si ritrovava protagonista di un film così schizofrenico, così lacerante, così spettacolare. In una scena vediamo il sorriso della ministra Boschi, sempre allegra e sempre con un tailleur diverso, immancabilmente fiduciosa nelle magnifiche sorti e progressive della riforma del Senato, riforma che difende a passo di carica facendo la spola tra il partito e il Parlamento come una staffetta partigiana. Nella scena successiva suona invece una cupa sirena d’allarme, e rimbalzano parole da guerriglia, quelle del senatore Corradino Mineo che denuncia con tono grave che la «militarizzazione» della commissione Affari costituzionali e il pericoloso avvento del «renzismo-stalinismo », quelle del felpatissimo senatore Vannino Chiti — già ministro delle Riforme che non si fecero — che punta il dito contro «un partito autoritario e plebiscitario», e soprattutto quelle dei 14 senatori che ieri si sono autosospesi dal gruppo del Pd invocando la Costituzione, la Libertà e la Democrazia. E dunque, mentre ci sono ancora da lavare i bicchieri per i brindisi alla vittoria-shock delle europee e per la conquista di due terzi dei municipi italiani, l’elettore del Pd si ferma frastornato e confuso a domandarsi se abbia ragione — scena prima — Pippo Civati, che getta in faccia all’ex amico Matteo l’accusa bruciante di aver rispolverato «la tradizione bulgara» delle epurazioni televisive berlusconiane, se il ribelle Mineo non abbia poi torto quando avverte che «non si può pensare di fare le riforme con un solo voto di scarto, 15 contro 14», se sia fondato l’allarme del sapore pre-resistenziale del senatore Paolo Corsini contro «l’epurazione delle idee non ortodosse», o se invece faccia bene Renzi — scena seconda — a tirare dritto, avvertendo che «i voti degli italiani contano più dei veti di qualche politico», e dicendo chiaro e tondo ai dissidenti che combattono una battaglia persa, «perché io non ho preso il 41 per cento per lasciare il futuro del Paese a Mineo». E basta dare un’occhiata agli accorati messaggi postati su Facebook o su Twitter per capire che il popolo del Pd si è già diviso tra la difesa della riforma, costi quel che costi, e la difesa del sacro diritto al dissenso, da proteggere senza se e senza ma. I tifosi del Renzi decisionista contro gli avversari del Renzi decisore autoritario. Pochi perdono tempo a leggersi le carte, come quel noiosissimo regolamento del Senato dove c’è scritto che le commissioni non sono dei mini-senati ma dei comitati che devono rispecchiare fedelmente il rapporto tra maggioranza e opposizione, e infatti i capigruppo hanno il potere di sostituire in qualunque momento i commissari, i quali siedono lì come rappresentanti del gruppo e non a titolo personale. E si capisce. Altrimenti — caso limite ma non tanto — l’unico dissidente di un partito di maggioranza potrebbe, votando in commissione con gli avversari, bloccare all’infinito una legge che in aula sarebbe magari approvata in mezza giornata. Certo, l’idea che il Parlamento debba approvare mettendosi sull’attenti la riforma che il ministro Boschi tira fuori con grazia dalla sua cartella di pelle sarebbe inaccettabile: i senatori, tutti i senatori, hanno il pieno e incomprimibile diritto di dire la loro e di votare — nell’aula di Palazzo Madama — come ritengono giusto. Ma chi grida al dittatore, chi parla di stalinismo, chi lancia l’allarme per la militarizzazione del Parlamento, chi evoca gli editti bulgari e chi non distingue tra decisionismo e autoritarismo sorvola un po’ troppo disinvoltamente su un dettaglio non proprio insignificante: la riforma che non piace ai dissenzienti non l’ha consegnata al buio e di nascosto Renzi alla fidata staffetta Boschi, ma è stata approvata prima dalla Direzione del partito e poi dall’assemblea del gruppo (dove ci furono solo 11 voti contrari e 4 astenuti, su 107 senatori). Ed è per questo che oggi Luca Lotti, il numero due di Palazzo Chigi, può difendere Renzi dall’accusa di despotismo, «perché siamo un partito democratico, non un movimento anarchico». Non sappiamo come finirà il pasticciaccio brutto di Palazzo Madama, ma in quei corridoi solenni un occhio attento oggi può cogliere il sorriso di chi si gode le inedite scene delle autosospensioni di gruppo e degli insulti incrociati con l’inconfessabile speranza che la guerriglia antirenziana del subcomandante Mineo allontani il momento in cui tutti loro dovranno perdere quel seggio, quel titolo e quello stipendio.