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 2014  giugno 12 Giovedì calendario

IL CONTO SALATO DEGLI ERRORI COMMESSI DALL’OCCIDENTE


Perché ci dovremmo occupare e preoccupare di quello che accade a Mosul e in Iraq? La fragilità dei regimi mediorientali, il declino americano e il tracollo politico ed economico dell’Europa fanno parte di una crisi di sistema, di una sorta di geopolitica del collasso che riguarda tutti. In primo luogo inquieta assai l’indebolimento dell’influenza degli Stati Uniti nella regione che dopo avere condotto l’invasione in Iraq nel 2003 sul falso mito delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, perso migliaia di uomini e sperperato centinaia di miliardi di dollari, vedono sgretolarsi una creatura politica che doveva costituire un elemento fondamentale della nuova mappa del Medio Oriente, dell’esportazione della democrazia e della lotta al terrorismo.
Il fallimento della politica americana in Medio Oriente e sulla sponda Sud del Mediterraneo trascina anche noi europei perché in questa regione, si gioca ancora una partita strategica per gli equilibri mondiali e il controllo delle risorse energetiche.
Forse non è del tutto vero che si fanno le guerre per il petrolio ma si fanno sicuramente delle guerre con il petrolio. L’Iraq è stata una di queste, la Libia un’altra, con gli esiti disastrosi e caotici che abbiamo davanti, sospinti fino alle nostre amate sponde dove l’arrivo dei migranti clandestini non solleva nessun interesse né parte di Washington né di Bruxelles né della Nato. Come se avere bombardato la Libia di Gheddafi fosse stato un episodio trascurabile, come se non costituisse un altro elemento di preoccupante destabilizzazione. Persino una nobile vittima americana, come l’ambasciatore Chris Stevens, trucidato a Bengasi, viene dimenticata in fretta.
Purtroppo la cattiva notizia è che gli americani mancano di una strategia e persino, almeno in apparenza, di un’intelligence che sappia descrivere la realtà sul campo. La Libia nelle riunioni internazionali viene ancora difesa da americani e britannici con una «brillante operazione militare».
Si procede per slogan, come avviene da anni agli inconsistenti vertici degli Amici della Siria dove - dopo il ritiro dall’Iraq e quello programmato dall’Afghanistan - gli Stati Uniti si sono consegnati alle iniziative di alleati inaffidabili che perseguono, come sauditi e qatarini, obiettivi dettati da princìpi settari. I sunniti devono prendersi la rivincita della sconfitta in Iraq, conquistato dagli sciiti, e quindi ogni mezzo è lecito pur di far fuori Bashar Assad, alleato di Teheran e degli Hezbollah libanesi.
Washington si è così infilata in un groviglio inestricabile e paradossale. Per contrastare un regime brutale l’anno scorso gli americani avrebbero voluto intervenire - trascinati ancora una volta da una Francia bellicosa e interessata ad aggiudicarsi lucrosi contratti nel Golfo - con bombardamenti indiscriminati in Siria che avrebbero consegnato un altro Paese chiave del Medio Oriente, ai jihadisti di Al Qaeda che hanno soppiantato l’opposizione più laica e rispettabile.
Ma è sufficiente farsi un giro alla periferia di Damasco, per vedere da tempo la bandiera nera dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, l’Isil, che oggi è cosi forte da permettersi di combattere contro Assad in Siria, contro il governo di Baghdad in Iraq e affrontare scontri sanguinosi con i rivali jihadisti di Jabat al Nusra. Non possono essere questi gli alleati dell’Occidente per abbattere una dittatura ma questa è stata la scelta di Washington lasciando campo libero agli Amici della Siria manovrati dalle monarchie del Golfo.
Queste sono tattiche di corto respiro, che possono dare risultati immediati ma sul lungo periodo si rivelano disastrose: negli anni’80 gli Stati Uniti delegarono al Pakistan e all’Arabia Saudita la scelta dei gruppi da finanziare e armare nella guerriglia contro i sovietici dell’Armata Rossa. Islamabad e Riad puntarono sui movimenti più integralisti, con le tragiche conseguenze note a tutti.
C’è da stupirsi, dopo questa sequela di errori, se oggi vediamo lo sciame nero dell’Isil mettere a ferro e fuoco l’Iraq?

Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 12/6/2014