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 2014  giugno 12 Giovedì calendario

I TEDESCHI SCOPRONO GLI SPAGHETTI


da Berlino

Nell’ormai lontanissimo ’68, i ristoranti italiani a Amburgo erano tre, ed uno, il «Cunèo» con accento sulla e, risaliva all’inizio del secolo. Il secondo per anzianità era il «Roma» aperto sotto il III Reich. In quell’anno, il viareggino Massimo Mannozzi apriva a Berlino il «Bacco», ormai entrato nella storia della metropoli.
A Colonia, Salvatore gestiva un locale quasi clandestino riservato agli immigrati. I tedeschi erano trattati da intrusi. Un giorno, venne il sindaco e pretese il parmigiano sugli spaghetti alle vongole. Lui lo cacciò con sdegno partenopeo. Il borgomastro lo denunciò e vinse: il cliente ha sempre ragione. Evidentemente anche il giudice ignorava cosa fossero gli spaghetti. Allora, la pasta era definita «Sättigungsbeilage», contorno per saziare, in una traduzione poco elegante e precisa.
Altri tempi, ormai e non da ieri il nostro piatto nazionale ha conquistato la Germania. In una famiglia su tre si cucinano spaghetti almeno una volta alla settimana. Alcuni ricorrono ancora alle confezioni precotte, o alle lasagne congelate. Ma sono sempre meno. Il 60% dei tedeschi mangia pasta più volte al mese, alla mensa dell’ufficio o della fabbrica, o al ristorante. Nei supermarket si trovano scatolette di salse: al pesto ligure, al pesto siculo, bolognese e arrabbiata. Non sono neanche male, so, nello scriverlo, di attirarmi il dileggio dei miei connazionali, ma noi esuli ci dobbiamo arrangiare. Comunque, anche se volessi e sapessi preparare un pesto con le mie mani, il basilico che cresce in Prussia non ha il profumo delle pianticelle liguri.
Quando cadde il «muro» (1989) Berlino era un deserto culinario. E come un Gastarbeiter, un lavoratore ospite, compivo in estate spedizioni in Italia: tornavo con l’auto carica di prodotti introvabili. Non durò a lungo. Un’estate, a Roma mi raccomandarono una marca di spaghetti, un consiglio da esperti, il meglio del meglio. Faticai a trovarli, e ne feci incetta. Tornato a Berlino, alla prima visita nel supermarket sotto casa, li scoprii in bella vista, a un prezzo quasi uguale a quello romano.
Dagli Anni Settanta, in vent’anni, il consumo di pasta in Germania è aumentato del 50%. Nel Duemila si era a 5,5 chili a testa e all’anno. Oggi superiamo gli 8 chili, sempre poco in confronto ai 28 degli italiani. Un mercato allettante e in continuo sviluppo, che la Barilla ha deciso di conquistare una volta per tutte.
Già anni fa, lanciò una fortunata campagna pubblicitaria in cui Steffi Graf serviva spaghetti a tavola e si adornava di penne e rigatoni, come collane o orecchini. Ora, la Barilla ha deciso di raddoppiare il fatturato a casa di Frau Angela entro il 2020, e lancia un’offensiva sul prezzo: ieri, il nome indicava spaghetti di qualità superiore, oggi si acquistano per 69 cent nella confezione di mezzo chilo, che cosa succede? si stupisce la Frankfurter Allgemeine am Sonntag. Un prezzo economico non a scapito della qualità. Al di sotto è impossibile andare: perfino le confezioni «no name», senza marchio, nelle catene popolari costano di più.
Logico che, insieme con gli spaghetti, i clienti acquistino anche le scatolette di sugo pronto Barilla. Se va bene agli italiani, va bene anche per loro. In base alle nuove norme di ortografia, si dovrebbe scrivere «spagetti», ma anche la Frankfurter nel suo articolo usa la forma originale e scorretta, secondo i burocrati della lingua.
Una partita già vinta? Adesso i tedeschi passano al contrattacco. La Birkel non starà a guardare. In Germania si produce mozzarella e «Parmesan», tutto in regola purché non si aggiunga «reggiano» o «padano», e si fabbricano spaghetti di grano duro, che solo un intenditore potrebbe distinguere dai nostri.
I tedeschi sono da sempre dei grandi imitatori, e mettono sul mercato perfino il Camambert, cui devono solo cambiare il nome. I francesi si sono preoccupati di proteggere le loro specialità, al contrario di noi.

Roberto Giardina, ItaliaOggi 12/6/2014