Mario Calabresi, La Stampa 11/6/2014, 11 giugno 2014
EDIZIONI EVENTO UNA RICETTA PER I GIORNALI
Esattamente trent’anni fa, era il 4 giugno del 1984, Bruce Springsteen pubblicava il suo disco di maggior successo: Born in the Usa.
Il titolo dell’album è anche quello della canzone con cui si apriva, una delle più famose, ma c’era molto altro, da I’m on fire a Glory days.
Ognuno di noi ricorda ancora la sequenza esatta delle canzoni dei dischi che ha amato, se chiude gli occhi quando finisce un brano, in quell’istante di silenzio, sa già cosa sta arrivando. Dopo Born in the Usa c’è Cover me e poi Darlington County.
Chi abbia frequentato i giornali per tutta la vita conosce la sequenza delle sezioni a memoria.
Se vuole andare allo sport, alla pagina delle opinioni o alle previsioni del tempo lo ha sempre potuto fare a occhi chiusi e quell’istante in cui gira la pagina è l’attimo di silenzio di un vecchio disco.
Il settore discografico è stato il primo a essere colpito dalla disruption digitale (lo scompaginamento dei modelli tradizionali del giornalismo) e dalla possibilità di trovare i brani gratis, molte case discografiche sono scomparse, altre si sono reinventate ma di certo la musica non è morta. L’esempio è stato usato milioni di volte per parlare della disruption dei giornali ma anche qui è importante ripetere che se i giornali non stanno bene però il giornalismo è vivo.
Ma non voglio tornare ancora alla parte negativa ma guardare a quell’esempio cercando soluzioni. Oggi quasi nessuno compra più interi album, la maggior parte delle persone scarica singoli brani e costruisce a piacimento la propria colonna sonora.
Ogni brano però è capace di diventare una storia ed è nell’evento del concerto che il pubblico ritrova una narrazione completa e la casa discografica il suo business model.
Anche il nostro meccanismo tradizionale di racconto si è rotto e il passaggio dal disco al brano sta avvenendo a una velocità incredibile: sempre più persone cercano una notizia o una storia e non una gerarchia di notizie.
Ecco il contenuto di cui parliamo qui oggi, quel pezzo della nostra produzione che dobbiamo imparare a distribuire al meglio, intorno a cui riorganizzare il nostro sapere e su cui costruire eventi, i nostri concerti.
A novembre ho fatto un viaggio nella Silicon Valley, cominciato con un incontro con Richard Gingrass, direttore delle news a Google, che mi aveva mostrato come il 75 per cento di nuovi ingressi sui siti di news provenga da motori di ricerca e social network e come solo il 25 arrivi direttamente sui siti. Poi mi aveva aggiunto: spendete troppi soldi e troppo tempo ad arredare la vostra home page. Pensando che ci sia ancora un ingresso principale vi impegnate a mettere le piante, i fiori, il tappeto rosso e lucidate le maniglie, salvo scoprire che poi gli utenti entrano dalla finestra del bagno, prendono quello di cui hanno bisogno e se ne vanno subito. Dovete trasformare il bagno, ogni stanza deve essere arredata come un ingresso, per catturare l’attenzione del lettore e ingaggiarla.
Appena sono tornato ho guardato i dati del nostro sito web e ho visto che per La Stampa non era ancora così: il 68 per cento arrivava digitando il nostro indirizzo, il 25 per cento tramite i motori di ricerca e il 7 per cento dai social network.
Sono passati solo sei mesi ma i dati di maggio mi hanno sconvolto: 45 per cento di utenti diretti, 45 per cento dai motori di ricerca e 10 per cento dai social.
Dobbiamo essere veloci ad adattarci al nuovo mondo, perché come sostiene una citazione erroneamente attribuita a Charles Darwin ma che si adatta perfettamente al tema dell’estinzione: «Non è il più forte che sopravvive, né il più intelligente ma il più capace di rispondere al cambiamento».
Dobbiamo essere capaci di trasformare il contenuto per adattarlo ad ogni piattaforma, cucinarlo in modo tradizionale, con reportage scritti che nascono per la carta, o trasformarli per le piattaforme digitali con un approccio multimediale, arricchendo lo scritto con video e gallerie fotografiche, per poi rileggerlo ancora visualizzandolo con gli strumenti del data journalism e dell’infografica. Ma non basta, dobbiamo essere capaci di riutilizzare il nostro materiale d’archivio – La Stampa ha appena dato vita a un progetto per le scuole con le sue prime pagine sulla Prima guerra mondiale – e usare il nostro sapere per dibattiti, conferenze e progetti educational.
Per usare un’altra citazione, questa volta originale ma proveniente dal mondo contadino, bisogna fare come si fa con il maiale: «non si butta via niente». Per sopravvivere dobbiamo innovare, trasformare e riciclare.
In questo lavoro ogni storia diventa un progetto unico intorno a cui riorganizzare il sapere. Ma vorrei concludere raccontandovi un’esperienza che può essere una soluzione per il futuro ma che è nata nel modo più tradizionale e inizialmente solo sulla carta.
Esattamente cinque anni fa La Stampa diede vita al suo primo numero speciale, nacque per caso, in occasione del G8 italiano del 2009. Insieme a One Campaign l’organizzazione no profit in cui sono molto attivi Bob Geldof e Bono degli U2, preparammo un’edizione del giornale in cui in ogni sezione del giornale si affrontava un aspetto dell’Africa, non trattata come un problema ma come un’opportunità di cambiamento. Scrissero quel giorno per noi persone molto diverse: da Bono a Desmond Tutu, da Roberto Saviano a Kofi Annan, da Naomi Campbell a Romano Prodi, da Tony Blair a Carla Bruni. Fu un grandissimo successo, vendemmo 50 mila copie in più del normale. I lettori ebbero la sensazione di partecipare ad un evento, che quel giorno il giornale non poteva essere perso e non perché c’erano i risultati delle elezioni o la cronaca di una strage, ma per la scelta editoriale di approfondire un tema.
E mi tolsi una grande soddisfazione: superare il precedente record di vendita che era stato stabilito il giorno in cui avevamo regalato con il giornale un asciugamano per il mare. Battere con l’Africa un telo per il mare non è male…
Da quel momento abbiamo cominciato a fare numeri speciali ogni due mesi: sull’ambiente, i giovani e la mancanza di lavoro, o in occasione di eventi importanti. Il 3 maggio dello scorso anno abbiamo dedicato il giornale alla giornata mondiale per la libertà di stampa e al nostro giornalista Domenico Quirico che era stato rapito in Siria (e che fu liberato dopo 152 giorni di prigionia). Quel giorno raccontammo lo stato del giornalismo in Messico con le parole di Anabel Hernandez o in Somalia con il racconto di Omar Faruk Osman, ma anche in Europa, in Russia, in Cina, in Azerbaigian, a Cuba o in Pakistan, dove l’anno precedente era stato ucciso il nostro collaboratore Saleem Shahzad.
A gennaio di due anni fa i numeri speciali si sono arricchiti del progetto Europa, che portiamo avanti insieme a El Pais, The Guardian, Le Monde, Suddeutsche Zeitung e Gazeta Wyborcza. Sei giornali, sei lingue diverse, 10 milioni di lettori, una sola Europa. Uno sforzo e uno scambio pensato per raccontare l’Europa dei cittadini, per mescolare giornalismi diversi, che quattro volte l’anno diventa un supplemento speciale dedicato a un tema caldo – l’ultimo in occasione delle elezioni era dedicato al populismo.
La nostra ultima edizione speciale è uscita giovedì scorso, il 5 giugno, in occasione della Giornata mondiale dell’Ambiente, con le interviste a Bill Gates e a Michelle Obama e alcuni grandi reportage.
L’idea che sta alla base di questo lavoro è quella di creare un evento, il nostro concerto, e che il giornale quotidiano non debba più essere solo un contenitore di notizie ma possa trasformarsi anche in qualcosa di tematico. In questo caso si prende un contenuto forte e gli si mette intorno tutto il nostro sapere, dando il maggior risalto possibile al giornalismo di qualità, alla capacità di scegliere e di investire.
Tutto ciò ha poi naturalmente una declinazione digitale e una vita diversa su ogni piattaforma, ma ciò che vi voglio raccontare ancora è che ognuno di questi numeri vende più copie della media e raccoglie più pubblicità. In tempi di grande crisi della pubblicità abbiamo visto come gli investitori comprano più volentieri spazio dentro questi numeri evento, ne riconoscono il valore, pensano che i lettori siano più attenti e vogliono salire a bordo.
Mi sembra una risposta forte a chi parla della stanchezza del giornalismo tradizionale e ci mostra che anche nel mondo digitale in cui viviamo e che sarà il nostro habitat naturale, anche la carta può essere usata come laboratorio di innovazione, per dare vita a idee capaci di farsi notare e di catturare un lettore sempre più distratto e distante.
Ciò che ci è assolutamente chiaro è il bisogno di essere aperti a «contaminazioni» dall’esterno. In un tempo come questo di continua innovazione, non dobbiamo pensare di avere dentro la redazione tutte le risorse e le conoscenze che ci servono. E’ invece decisivo aprire le porte ai giovani talenti, a ingegneri informatici, sviluppatori e designer grafici che lavorino fianco a fianco con i nostri giornalisti. E’ quello che da qualche tempo facciamo nel MediaLab, lo spazio sul web dove stiamo sviluppando un nuovo «storytelling» e le nuove infografiche. Abbiamo aperto La Stampa Academy, in collaborazione con Google, proprio per far nascere questo tipo di professionalità e riunirle in team. E stiamo facendo ampia sperimentazione anche nel mondo dei video, usando per esempio la nostra innovativa Web Car, una Fiat 500L trasformata in redazione mobile che permette al nostro giornalismo di arrivare dovunque, in qualsiasi momento, per raccontare il mondo in streaming via satellite su tutte le nostre piattaforme digitali.
Mario Calabresi, La Stampa 11/6/2014
Il testo dell’intervento di Mario Calabresi alla seconda giornata del 66esimo Congresso mondiale dell’editoria Wan Ifra, in corso a Torino