Stefano Lorenzetto, Panorama 12/6/2014, 12 giugno 2014
INTERVISTA A FRANCA VALERI
Franca Valeri, alias Cesira la manicure, alias la signorina Snob, alias la sora Cecioni, festeggia le nozze d’oro con la sua testa. «Porto i capelli così dal 1964, sempre dello stesso colore, un taglio a caschetto creato dai Vergottini. Diffido delle donne che cambiano spesso pettinatura: è indizio di scarsa personalità». La sua apparizione al Festival di Sanremo, con quell’eloquio esitante e strascinato, ha dato l’impressione che sotto l’acconciatura si annidasse qualche guaio. «Hanno scritto che ho il Parkinson. Ho preso paura e sono andata a farmi visitare da un neurologo. “È solo un tremito ereditario” mi ha tranquillizzata. Infatti ce l’aveva anche mio padre, che rideva beffardo quando spandeva sul piattino un po’ di caffè. Certo, il 31 luglio saranno 94 anni. Non è che posso mettermi a scorrazzare per il palcoscenico, anche perché sono stata operata a un’anca. Però in scena la voce si distende, torna quella di sempre».
Agli increduli è offerta un’occasione davvero unica per verificarlo: il 28 giugno, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, Franca Valeri reciterà al teatro San Nicolò in una commedia tutta nuova, Il cambio dei cavalli, che ha scritto su misura per sé e per Urbano Barberini. «Quasi un anno di lavoro m’è costata». Prima assoluta nazionale. Con replica l’indomani.
Manca meno di un mese al debutto e l’anziana attrice non sembra per nulla angosciata. Alle 15.30 di un sabato piovoso sta ripassando le 44 pagine del copione nel buen retiro di Trevignano Romano, affacciato sul lago di Bracciano. Per riuscire a intervistarla, bisogna essere pronti a subire i ripetuti assalti dei suoi sette cani, quasi tutti chiamati con i nomi dei personaggi di opere liriche. In ordine (ma non strettamente) di apparizione: Roro IV («L’unico con pedigree, razza King Charles spaniel, la prediletta da Carlo I e Carlo II d’Inghilterra»), Palla («Sei tu Palla o Citerea?», Così fan tutte, scena sedicesima), Sophie («C’è nel Werther e anche nel Cavaliere della Rosa»), Bruschino («Il signor Bruschino di Gioacchino Rossini »). Quanto a Tonio, presente sia nei Pagliacci sia nella Figlia del reggimento ma qui solo in spirito essendo morto di recente, è stato prontamente rimpiazzato da Heidi e Petar, un cedimento della nonna melomane alle insistenze della nipotina Lavinia, che stravede per il cartone animato dell’orfanella. Fa stecca nel coro anche Tander, trovatello portato dal giardiniere.
L’osmosi vitale fra esterno e interno della villa è fatta d’impronte di zampe fangose stampate sui divani del salotto e di slinguazzate sul viso («Petar, basta! Mi sono già lavata la faccia stamattina») e rallenta il dialogo più del tremore di voce scambiato per morbo di Parkinson, ma è coerente con la missione della diva, così dedita ai suoi cani («Anche ai gatti, tre di casa e otto abusivi ospiti fissi») d’avere rinunciato all’antico sogno di trascorrere l’ultimo tratto di vita in un grande albergo di Venezia. Non per nulla ha fondato e dirige La Repubblica delle code, mensile dell’associazione animalista Franca Valeri onlus, e ha aperto in paese un rifugio per i piccoli amici dell’uomo.
Si è sempre scritta tutto da sola?
Quasi. Ebbi pure una vertenza giudiziaria con Attilio Spiller e Attilio Carosso, autori di Sette giorni a Milano, la trasmissione radiofonica condotta da Febo Conti in cui debuttai nel 1949. Io manco sapevo che esistesse la Siae e loro, ingenuamente, si erano attribuiti la paternità della signorina Snob. Gli amici vennero in tribunale a testimoniare che mi ero inventata quel personaggio molto prima di approdare in Rai.
Perché cambiò identità? Si vergognava a chiamarsi Franca Norsa?
Mio padre Luigi, un ingegnere mantovano esperto in acciai speciali, ambiziosissimo, mise il veto all’utilizzo del cognome di famiglia: temeva che lo infangassi con un insuccesso. Un giorno Silvana Mauri, moglie dello scrittore Ottiero Ottieri, aveva fra le mani un libro di Paul Valéry, edito dallo zio Valentino Bompiani: fu lei a suggerirmi il nome d’arte italianizzato. Anni dopo, mentre recitavo a Parigi, vennero a trovarmi in camerino i figli del poeta. «Madame Valeri, nous sommes un peu parents» si complimentarono.
Parecchio snob, come scelta.
A 18 anni avevo già letto tutte le opere di Marcel Proust in francese. Ho avuto un’infanzia così. Prima elementare a Milano, in via Fratelli Ruffini; poi quattro anni in via della Spiga, scuola e casa nella stessa strada. Nascondermi in un angolo con un libro in mano era l’unica gioia, l’evasione dalle brutture della guerra e del fascismo.
Un’infanzia assai difficile.
Allora i figli non si avevano: si «compravano», era questo il verbo usato. Mia madre Cecilia mi fece credere d’avermi acquistato per 50 lire da una vecchia che in una sera di pioggia le aveva portato un fagottino, spacciando il neonato in fasce per un maschio.
A buon mercato: 50 lire del 1920 corrispondono a 55 euro di oggi.
La richiesta iniziale era di 100 lire. Ma, avendo mia madre scoperto che ero femmina, la megera, smascherata, si accontentò della metà.
Roba da finire in psicoanalisi.
No, perché? Anzi, per me era un motivo di vanto. Io sono costata meno, non peso come te sulle tasche di papà, rimproveravo il mio fratellino Giulio, poveretto. Era il cocco di mamma. È morto nel 1990. Faceva l’ingegnere elettronico.
Comincio a capire come mai tenne nascosto ai suoi genitori di essere stata bocciata alla prova di ammissione nell’Accademia nazionale d’arte drammatica.
Fu un evento fatale. Erano le 13.30 quando, insieme con Tino Buazzelli, mi presentai al cospetto di Silvio D’Amico, Wanda Capodaglio e Orazio Costa con un testo da Les mouches di Jean Paul Sartre. Erano affamati, andavano di fretta, avevano passato l’intera mattinata a cacciare candidati scadenti. Tino fu accettato, io no. Un mio compagno rincorse per strada D’Amico che andava a rifocillarsi in un caffè a piazza di Spagna: «Presidente, è brava, le ridia una possibilità». Il critico si girò per un attimo verso di me ed esclamò: «Certo non è Olga Villi».
Crudele.
Aveva ragione. Ero una ragazza dall’aspetto infantile, di bassa statura, con un cappotto blu e un cappellino tondo. Presi bene la bocciatura: anziché studiare, avrei lavorato. Nella mia infinita presunzione ero convinta che sarei diventata attrice lo stesso. Una cugina di mio padre, che mi ospitava a Roma, mi resse il sacco per tre anni, fingendo con i miei che frequentassi l’accademia. Divenni amica di Ennio Flaiano, entrai in un giro straordinario di gente molto più grande di me, come i fratelli Francesco e Nicola Ciarletta. La sera recitavo a braccio nelle loro case. Inventavo. In breve divenni la loro vedette. E dopo che il Teatro dei Gobbi, la compagnia che avevo formato con Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, nel 1950 ottenne un enorme successo a Parigi, D’Amico mi risarcì scrivendo cose bellissime su di me.
Parigi fu il battesimo di fuoco.
Finito lo spettacolo, andavamo in un cabaret sulla Rive droite, vicino all’Opéra. Poi, tutta sola, mi recavo a recitare i miei monologhi alla Cave Saint-Germain, dove si esibiva Juliette Gréco, ancora con il suo nasone originale, accompagnata dal chitarrista jazz Django Reinhardt. Una recensione su Le Monde alla fine ci scappava.
Ma la sua vocazione a stare in scena com’è nata?
L’ho sempre avuta. A 5 anni già facevo le imitazioni in famiglia e cantavo le operette di Franz Lehár, La danza delle libellule e Gigolette.
Non la affatica recitare, alla sua età?
Mi affatico a oziare. Niente e nessuno mi manca più del teatro quando esso non entra nelle mie giornate. Mi sono sempre domandata perché l’uomo l’abbia inventato.
E che risposta s’è data?
L’ha inventato perché il teatro è la bella copia della vita. A teatro il male è più punito e il bene è più premiato. A teatro l’amore è eterno e la morte è finta. Ho cercato d’essere degna di tanto dono, talvolta interpretando le parole altrui, più spesso le mie.
A chi sottopone i suoi copioni per averne un giudizio?
A Franca Valeri. Non amo che qualcuno legga in anticipo le mie cose.
Ha paura quando entra in scena?
Paura è troppo dire. Ma, appena si spengono le luci, vivo sempre un momento d’incredulità. Ricordo il panico di Paolo Stoppa quando nel 1978 recitai con lui in Gin game al Festival dei Due Mondi. Era il suo primo spettacolo dopo la perdita della compagna Rina Morelli, avvenuta due anni prima. Dovevo suggerirgli le battute perché temeva di avere perso la memoria.
Ha avuto spesso a che fare con uomini che si fermavano da lei giusto il tempo per un cambio di cavalli?
Non mi sono mai messa nella condizione di essere una stazione di posta. Però mi rendo conto che la natura maschile è quella. Non si può programmare l’eternità. Ogni uomo ha un suo modo di vivere. Anche quando è sinceramente innamorato di te, prova il medesimo sentimento per un’altra. Che cambia? Di occasioni ne avrei avute molte anch’io, ma non ne ho mai approfittato. Guai se la gelosia entra nelle piccole cose. Dividersi per una scappatella è da stronzi.
Lei divorziò da suo marito, Vittorio Caprioli.
Un compagno perfetto. Ma a un certo punto lui si era invaghito seriamente di un’altra donna e io del direttore d’orchestra Maurizio Rinaldi, che è stato l’uomo della mia vita. Morì nel 1995, a 58 anni. Sono sempre passata sopra alle scappatelle di entrambi. Penso che un rapporto profondo si basi sul sentirsi importanti per ragioni morali, non sessuali.
Avverte la mancanza dei figli?
Non ne ho avuti di miei, però una decina d’anni fa ho adottato una figlia che adesso è anche la mia migliore amica. Si chiama Stefania Bonfadelli, è una bravissima cantante lirica, veronese di Valeggio sul Mincio. Soprano di coloratura. Dovrebbe ascoltarla nella Traviata, nella Lucia di Lammermoor, nel Rigoletto. Un prodigio.
Più che la madre adottiva, qui sento parlare la melomane.
Non sono incline a commuovermi. Ma Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti hanno il potere di farmi piangere. La musica è un miracolo. Sono giunta a ipotizzare che sia Dio.
Mi pareva di ricordare che versasse lacrime soltanto per i film di Vittorio De Sica.
Anche. È stato il mio regista preferito, quello che ho stimato di più e che mi diede una particina in Villa Borghese nel 1953. Il suo Umberto D è terribile, ogni volta che lo rivedo mi mette addosso un’infinita tristezza. Non parliamo di Ladri di biciclette. Ho incontrato in un ufficio postale Enzo Staiola, l’interprete del piccolo Bruno, ormai fattosi uomo. «Signora, si ricorda di me?» mi ha chiesto. Gli ho risposto: e come no, hai ancora la stessa faccia, sei un abuso della capacità di sofferenza del pubblico.
La ricordano tutti per Il vedovo di Dino Risi e per quella battuta che la moglie rediviva rivolge allo stupefatto marito impersonato da Alberto Sordi: «Cosa fai cretinetti, parli da solo?».
Mi venne lì per lì, anche se avevamo un signor sceneggiatore, Rodolfo Sonego. Era accaduta la stessa cosa con Il segno di Venere: mi scrissi il copione in gran parte da sola, nonostante poi ne abbia condiviso la paternità con Ennio Flaiano, Cesare Zavattini e lo stesso Risi.
Ho letto sui giornali che lei ha litigato con Mina.
È falso. Anzi, mi cita spesso con affetto. Andai a sentirla per la prima volta con Luchino Visconti, a Ischia.
Ha scritto L’educazione delle fanciulle con Luciana Littizzetto. La considera la sua erede?
No. Non c’entra niente con me. Intelligente e spiritosa. Però diversa.
Non la disturba la volgarità delle battute a Che tempo che fa?
Lo reputo un vezzo al quale ormai è costretta per duettare con Fabio Fazio. Ma lo regge con bravura.
E lei come mai accettò di recitare in alcune fra le più scollacciate commedie all’italiana, tipo La signora gioca bene a scopa?, Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento e Ultimo tango a Zagarol?
Zagarol, giusto, non Zagarolo come scrivono tutti. Nando Cicero, che era stato aiuto regista di Visconti, insistette tanto: «E dai, almeno una volta fammi una cosetta in un film con Franco Franchi». Accettai per soldi. Molti soldi. Chi è quell’attore che non ha fatto alcune porcherie ben pagate?
In questo momento il suo stato d’animo qual è?
Il mio. Lo stesso di sempre. Non ho mai capito chi si crogiola nell’afflizione. A me basta poco per essere felice: una visita, una telefonata, i miei cani, un buon cibo, un vestito nuovo.
È vero che ai costumi di scena preferisce il suo guardaroba privato, per non ritrovarsi in palcoscenico sommariamente abbigliata?
È vero. In tv mi dicevano: «Si metta un abito suo». Comprensibile, visto che il mio sarto era Roberto Capucci.
Si sente legata all’ebraismo?
Tutto sommato sì. Come mio padre, non sono praticante. Però in famiglia c’era rispetto per questa origine, tant’è che le nozze dei miei furono molto osteggiate, in quanto la sposa era cattolica. Ho il rimpianto di non avere mai visitato Israele. Purtroppo per tutta la vita sono andata soltanto nei luoghi in cui dovevo recitare. Però porto al collo questa. (Mostra una stella di David che la figlia adottiva le ha portato da Gerusalemme).
Quando furono promulgate le leggi razziali, lei aveva 18 anni. Che cosa ricorda di quel tragico periodo?
La disperazione di mio padre. Si sentiva in colpa per la catastrofe che sarebbe ricaduta su di noi. Lui e mio fratello trovarono rifugio in Svizzera. Non ho mai compreso il motivo per cui mi lasciò con sua moglie a Milano, forse pensava che mi sarei salvata perché la mamma era battezzata. Chissà come sarebbe andata a finire se un impiegato dell’anagrafe non mi avesse rilasciato una carta d’identità falsa, che mi fece diventare figlia di Cecilia Pernetta, nata a Pavia, e di NN. Il 29 aprile 1945 mia madre cercò d’impedirmi di andare a piazzale Loreto a vedere i cadaveri di Benito Mussolini e degli altri gerarchi fascisti appesi a testa in giù. Ma non riuscì a trattenermi. Ero arrivata a un tale eccesso di odio che non provai nessuna pena. Per me quel truce spettacolo equivaleva al giudizio universale: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra.
Non le dispiacerebbe morire in scena, confessi.
Forse. Non ho ancora scelto.
(stefano.lorenzetto@mondadori.it)
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