Margherita Barbero, Il Fatto Quotidiano 11/6/2014, 11 giugno 2014
COSÌ LO SCANDALO DEL MOSE HA AFFONDATO LA FINANZA VENETA
Il recente arresto di Roberto Meneguzzo, sospettato di concorso in corruzione nell’inchiesta sul Mose di Venezia, è la spia della crisi di un sistema finanziario del Nord-est che da mesi perde colpi. E che, un po’ come qualche anno fa la “razza padana” di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno, non è riuscito a creare un meccanismo virtuoso tra aziende del territorio e finanza. Anzi. L’ipotesi degli inquirenti è che Meneguzzo, capo della holding di investimento vicentina Palladio Finanziaria, nel 2010 abbia agito come intermediario tra Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, e Marco Milanese, storico consigliere dell’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti, per sbloccare con una mazzetta i fondi del Cipe per il Mose. Due anni dopo, nel 2012, i ruoli si ribalteranno. Da intercettazioni legate a differenti inchieste, emerge che il cerchio magico di Tremonti, nella battaglia per il controllo della Fondiaria-Sai della famiglia Ligresti, si schierò con l’Unipol di Carlo Cimbri, che avrà la meglio, anziché con la Palladio di Meneguzzo e Giorgio Drago e la Sator di Matteo Arpe.
Il ruolo delle cooperative rosse conferma la tentacolare rete di intrecci tra le storie italiane sotto inchiesta: socie di controllo di Unipol (su cui stanno indagando i pm di Torino e Milano), compaiono anche nella vicenda degli appalti del Mose, attraverso il consorzio Coveco, che in base ad alcune intercettazioni avrebbe avuto il proprio tornaconto nel giro di tangenti e finanziamenti illeciti che si sospetta partissero da Mazzacurati.
Mazzette a parte, il colpo decisivo al sistema finanziario del Nord-est lo assesta proprio la vicenda Fonsai. La discesa in campo di Palladio e Sator per mettere le mani sulle assicurazioni dei Ligresti, che Mediobanca e Unicredit avevano invece deciso di traghettare verso Bologna, crea una rottura insanabile tra Piazzetta Cuccia e la finanziaria vicentina di Meneguzzo. Più il tempo passa, però, e più emergono nuovi indizi che avvalorano la tesi che la guerra per Fonsai sia all’origine della cacciata di due anni fa di Giovanni Perissinotto dalle Generali, da sempre grande snodo dei poteri finanziari italiani. Se, infatti, nella partita per aggiudicarsi le assicurazioni dei Ligresti, i Tremonti boy tifarono per Unipol, l’ex amministratore delegato del gruppo triestino manifestò qualche dubbio sulla solidità della società bolognese e simpatizzò con Palladio e Sator. E siccome ognuno dei grandi soci della compagnia assicurativa triestina, da Mediobanca al gruppo Caltagirone passando per De Agostini e la famiglia Del Vecchio, aveva dei motivi per chiedere la testa del manager, non ci sarebbe da stupirsi se a convincere Piazzetta Cuccia sia stata proprio la vicenda Fonsai. A giugno del 2012, comunque, Perissinotto salta, per essere sostituito da Mario Greco, in arrivo dalla svizzera Zurich. Già a dicembre di quell’anno, poco prima di lasciare il giornalismo per la politica, il senatore del Pd Massimo Mucchetti, sul Corriere della Sera, raccontava di operazioni in odore di conflitto di interessi che avevano originato malumori tra alcuni soci delle Generali e che l’ex ad aveva realizzato con un gruppo di azionisti veneti riuniti nella cassaforte Ferak. Quest’ultima raggruppa una compagine di imprenditori e finanzieri intorno alla Palladio di Meneguzzo: le famiglie Zoppas e Amenduni, la holding di Conegliano Finint di Enrico Marchi e Andrea De Vido, e Veneto Banca. Ferak ha in portafoglio il 3,3 per cento delle Generali, poco piùdell’1percentoinformadirettaeilrestante2,15 in coabitazione ormai forzata con la Fondazione torinese Crt, con la quale sono sorte tensioni dopo le mire di Palladio su Fonsai.
Con la caduta di Perissinotto, si spezza l’ala veneta dei soci della compagnia triestina. Anche in quest’ottica si spiega perché l’azione di risarcimento che le Generali di Greco hanno da poco avviato nei confronti dell’ex ad e del suo ex braccio destro, Raffaele Agrusti, trovi fondamento proprio in alcuni investimenti “alternativi” (a cosa non si sa) realizzati con Palladio, Finint e Amenduni. Le stesse operazioni, che in tutto avrebbero generato perdite a bilancio per le Generali di 234 milioni, sono alla base dell’inchiesta della Procura di Trieste, tutt’ora in corso, che vede indagati Perissinotto e Agrusti per ostacolo alla vigilanza. Le grandi pulizie di Greco hanno così travolto una parte dell’azionariato che, orfana dell’ex ad, stava attraversando una fase di debolezza. Ma non è detto che non sia rimasta della polvere sotto il tappeto. Sarà da vedere se l’ad del gruppo del Leone, che tempo fa si è già scontrato con Corrado Passera quando l’ex ministro guidava Intesa, avrà l’ardire di mettere sulla graticola tutte le operazioni in odore di conflitto di interessi che la compagnia triestina negli anni passati ha condotto anche con altri azionisti diversi dai veneti.
Oltre a Palladio, Finint e agli Amenduni, c’è un altro socio di Ferak che deve fare i conti con un momento non semplice: Veneto Banca, che stando a indiscrezioni sarebbe stata pronta a finanziare l’acquisizione di Fonsai da parte di Meneguzzo e Arpe, forse in coppia con Intesa Sanpaolo (che dalla fine del 2013 ha il 9% di Palladio). Negli ultimi mesi, la Banca d’Italia ha marcato stretto la Popolare di Montebelluna, che nel bilancio del 2013 ha svalutato crediti per quasi 460 milioni, contro ricavi espressi dal margine di intermediazione di 1,07 miliardi. Via Nazionale ha sollecitato e ottenuto sia un rafforzamento patrimoniale sia un ricambio ai vertici di Veneto Banca, passato per il declassamento dello storico leader Vincenzo Consoli, vicino a Meneguzzo, da Ad a direttore generale. Bankitalia avrebbe gradito una fusione con la Popolare di Vicenza, che pure è carente a livello di capitale, ma a Montebelluna si sono ribellati e il matrimonio è andato a monte. Si è invece chiuso, in autunno, l’affare che ha portato la Popolare di Vicenza presieduta dal produttore di vino Gianni Zonin, nell’azionariato di Save, la società che gestisce l’aeroporto di Venezia presieduta da Enrico Marchi, primo azionista attraverso la Finint, a sua volta socia di Ferak. Marchi era in difficoltà perché le Generali di Greco l’avevano scaricato decidendo di uscire dall’azionariato. Così, mentre il gruppo dell’aeroporto di Francoforte Fraport stava per planare su Save, l’intervento di Zonin è stato provvidenziale.
La stella finanziaria di Marchi aveva già cominciato a offuscarsi dal 2010, quando il governatore del Veneto berlusconiano e a lui vicino, Giancarlo Galan, aveva ceduto il testimone al leghista Luca Zaia. Con Galan, in passato in sintonia con Perissinotto e ora indagato nell’inchiesta del Mose, si torna all’attualità. E il cerchio si chiude.
Margherita Barbero, Il Fatto Quotidiano 11/6/2014